In memoria di Bertino

Ci sono dei segni che ciascuno di noi si porta appresso fin da quando comicia il suo viaggio su questa Terra.

A volte questi stanno nel nome che viene scelto per noi e nei nomi che si incontrano crescendo.

Altre volte ancora essi stanno nei luoghi che attraversiamo o che abitiamo.

Per altri, invece, parlano i numeri.

Il buon Bertino – perché questo era, una persona buona – è rientrato a pieno titolo in quest’ultima categoria di predestinati.

Nasce il 25 aprile 1933, quando ancora il 25 aprile non era ciò che sarebbe diventato, e muore il 2 giugno 2021.

Per noi, che abbiamo un figlio nato il Primo maggio, questo intreccio di date non può non avere un significato forte.

Ripensare a Bertino, per noi che ne abbiamo raccolto la storia tra le pagine di un piccolo libro – L’erba dei conigli – è come pensare a due Natali laici, nel segno della Liberazione e della Repubblica, seguendo un percorso di maturazione che non è solo singolare, ma anche popolare, nel senso più profondo del termine.

Ripensare a Bertino significa, però, anche ripensare alle opportunità gettate al vento, ai sogni non realizzati e alle promesse tradite che queste date richiamano.

Bertino, a soli dieci anni, seppe fare la sua scelta. Seppe prendersi una parte. Seppe prendersi la parte giusta. Per fame o per convinzione poco importa.

Oggi noi parliamo di lui a giovani che come scelta più difficile della loro vita hanno affrontato, in qualche caso, quella dell’acquisto di un paio di scarpe. 

Ma, tutto sommato, anche noi abbiamo avuto la vita facile. 

Come spesso succede, la storia ora comincia a chiederci il conto di tanta ignavia. Ci chiede se avremo la stessa forza di Bertino nel difendere i diritti conquistati con la vita dai nostri nonni. Ci interpella sul fatto che si riesca a ragionare come comunità e non solo come somma di singoli. Ci mette di fronte al fatto che il marcio che sembrava appartenere al passato, in fondo, non ci fa poi così schifo e che 1 su 5 – oggi, in Italia – sarebbe anche disposto a riassaggiarlo.

Avremmmo dovuto e voluto salutare Bertino il 5 di giugno, ma non ce l’abbiamo fatta. Ci è stato detto che negli ultimi giorni sembrava vuoto.

Vogliamo pensare che tutto quello che aveva da vivere lui sia riuscito a spenderlo e a raccontarlo. Perché di là – ovunque sia ora – non si porta nulla.

Facciamo nostro questo atteggiamento. Viviamo in modo che ci si possa consumare per ideali grandi, pensando che lo si possa fare a qualunque età e nonostante tutti i cattivi maestri che continuano a incrociare le nostre giornate. Perché se non perdiamo la memoria delle persone come Bertino, se resistiamo senza piegarci e adattarci ogni volta e se lo facciamo insieme, allora c’è un domani ad aspettarci, e un altro ancora.

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Alberto Mereghetti, detto Bertino, nasce a Busto Arsizio il 25 aprile 1933 e muore a Erto il 2 giugno 2021.

All’età di soli 10 anni, con il padre catturato dagli Alleati e detenuto in un campo di prigionia nel sud della penisola, viene coinvolto in alcune azioni da un gruppo di partigiani che operava nel quartiere di Sacconago di Busto Arsizio: consegna messaggi e cibo, trasporta e nasconde nel suo terreno pezzi di armi, affigge manifesti di propaganda.

Al termine del conflitto gli viene negato il riconoscimento dovuto per aver contribuito alla lotta partigiana.

Gli studi e l’amore per la scuola gli permisero di arrivare a ricoprire, a soli 39 anni, un posto di dirigente in una grande industria meccanica della sua città, permettendogli di girare l’Europa per vendere i macchinari prodotti.

Appassionato divulgatore scientifico, ha cominciato poi a raccontare nelle scuole del suo quartiere la sua vicenda di bambino in tempo di guerra, fino al momento in cui la sua storia è stata raccolta in un libro, L’erba dei conigli.

Massimo ASPESANI

Milly PAPARELLA

SCUOLA SCONFINATA. Proposta per una rivoluzione educativa.

Prima edizione in “Scenari”, maggio 2021

Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Licenza: Creative Commons

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Citazione: ‘Scuola Sconfinata, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli 2021, pubblicato sulla pagina web, con licenza CC BY-NC-SA

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Sconfiniamo la scuola

La Scuola Sconfinata è un progetto che questo libro racconta e descrive. Le difficoltà che la scuola ha affrontato in questi ultimi due anni hanno messo in luce e aggravato problemi e mancanze ormai cronicizzati. Per questo persone con professionalità diverse,  insieme a Fondazione Feltrinelli, accomunate dall’amore per i diritti e la felicità di bambine, bambini, ragazze e ragazzi (e dalla convinzione che la scuola pubblica abbia urgente bisogno di cura), hanno condiviso per un anno idee, competenze, sogni per arrivare a una proposta concreta: una Scuola Sconfinata che sia realmente pubblica, inclusiva e democratica come vuole la nostra Costituzione. 

Scuola Sconfinata è una scuola che esce dal perimetro delle proprie mura, dalle aule sovraffollate, dai banchi in cui si può solo guardare dritti davanti a sé, da metodi di insegnamento che non tengono conto delle ragazze e dei bambini, dall’isolamento di dirigenti e dalla stanchezza di ogni singola insegnante, dalle barricate dei genitori e dallo sguardo corto dei finanziamenti mordi e fuggi; è la scuola che sa mettersi dalla parte di chi la abbandona, per riconquistarlo, di chi ci arriva già carico di fatica per condizione economica o fisica, è la scuola che sa costruire relazioni significative, che sa valorizzare il proprio territorio e sviluppare interconnessione con le risorse presenti, è la scuola che sa mettersi al centro per costringere la politica a prendere concretamente atto che l’educazione è il vero motore di sviluppo e crescita di un Paese.

A partire dalla partecipazione attiva di bambine e ragazzi a tutto ciò che li riguarda, scuola in primis, dalla formazione di tutte le figure che fanno parte della comunità scolastica, dalla promozione della salute, dall’urbanistica, dalla digitalizzazione, dalle alleanze con altri enti,  dalla coprogettazione con il terzo settore e dalla didattica inclusiva ‘SCUOLA SCONFINATA. Proposta per una rivoluzione educativa’ affronta i nodi che permettono alla scuola di sconfinare, racconta  idee ed esperienze dei progetti che ci sanno già provando, indica proposte concrete.

Un esperimento di scrittura collettiva in cui più di quaranta autrici e autori, docenti di ogni grado scolastico, dirigenti, pedagogiste, architetti, funzionari delle amministrazioni, psicologhe, sociologi, responsabili di associazioni si sono uniti a partire dalla convinzione che riformare la scuola pubblica si può e si deve e hanno messo insieme le proprie competenze e offerto gratuitamente il loro lavoro per dire Si può fare a politici,  amministratrici, ma anche a singole insegnanti, genitori, educatrici, cittadini che hanno a cuore il futuro del nostro Paese e quindi la felicità e il benessere dei più giovani. 

E proprio con i racconti di bambini e ragazze su che cos’è la felicità si apre il libro. 

Una nota indica lo sforzo compiuto da autori e autrici per dedicare particolare attenzione al linguaggio di genere: ‘Pur consapevoli che non sia una soluzione perfetta, abbiamo deciso di usare il femminile e il maschile in maniera intercambiabile, trasformandoli in femminile e maschile universale (per esempio bambina, ragazza indicano anche bambino, ragazzo e viceversa), per sottolineare la necessità di una società inclusiva e paritetica e quanto le parole diano corpo ai pensieri.

Un ebook che Fondazione Giangiacomo Feltrinelli pubblica e diffonde gratuitamente perché possa raggiungere il numero più alto possibile di lettori e lettrici, un e-book che autrici e autori hanno messo in Creative Commons perché possa diventare bene comune, proprio come è un bene comune la scuola.

Sconfinare vuol dire abilitare immaginazione sociale per sondare piste radicali e alternative rispetto a come oggi concepiamo la funzione e il ruolo della scuola pubblica. È realmente possibile, oltre la retorica mainstream, promuovere un processo trasformativo del sistema educativo che ci veda compartecipi e co-responsabili? Come? Ecco, presentate in questo volume, una serie di proposte che consentono alla Scuola Sconfinata di realizzarsi’ dice nella prefazione Massimiliano Tarantino di Fondazione Feltrinelli e nella conclusione curatori/curatrici indicano la direzione segnata: ‘Ma questa storia è solo all’inizio: abbiamo tracciato la linea di partenza, gettato piccoli semi per una nuova coreografia educativa. Pensiamo insieme ai passi necessari da compiere, disegniamoli e realizziamoli; ci sosterranno l’audacia e la determinazione. Lasciamoci attraversare, che lo sconfinamento abbia inizio.”

In mezzo 43 autori e autrici raccontano come si può fare la Scuola Sconfinata. Una proposta per una rivoluzione educativa.

Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Licenza: Creative Commons

Attribuzione – Non Commerciale – Condividi allo Stesso Modo

A cura di Micaela Bordin, Annabella Coiro, 

Gabriella Fontana, Nicola Iannaccone, Sabina Langer,

Giulia Maldifassi, Antonella Meiani, Roberta Sala

 INDICE

Prefazione

Massimiliano Tarantino

Introduzione

Micaela Bordin, Annabella Coiro, Gabriella Fontana, Nicola Iannaccone,

Sabina Langer, Antonella Meiani, Roberta Sala

PARTE I

Nasce la Scuola Sconfinata

Il percorso

Micaela Bordin, Annabella Coiro, Gabriella Fontana, Nicola Iannaccone, 

Sabina Langer, Antonella Meiani, Roberta Sala, Pietro Savastio

Le ragioni

Micaela Bordin, Annabella Coiro, Gabriella Fontana, Nicola Iannaccone, 

Sabina Langer, Antonella Meiani, Roberta Sala

PARTE II

La rivoluzione educativa parte dalla Scuola Sconfinata

Insieme a bambine e bambini, ragazze e ragazzi

Bambine e bambini, ragazzi e ragazze, Stefano Laffi, Sabina Langer,

Maurizio Murino, Juri Pertichini

Didattica per una scuola sconfinata

Gabriella Fanara, Gabriella Fontana, Franco Lorenzoni, Raffaele Mantegazza,

Antonella Meiani, Antonella Piccolo, Milena Piscozzo, Elisa Roson, Roberta Sala

Architetture per l’apprendimento

Micaela Bordin, Rossana Di Fazio, Ivano Gamelli, Giovanni Guarino, Mario Gagliardi, 

Paolo Limonta, Paola Meardi, Silvia Pareti, Carlo Ridolfi, Marta Strata

Persone, ruoli, relazioni. Ripensare la formazione

Annabella Coiro, Sonia Coluccelli, Elisabetta Nigris

Patti di comunità per una educativa diffusa e coordinata

Claudio Calvaresi, Sonia Coluccelli, Nicola Iannaccone, Ulderico Maggi, 

Cesare Moreno, Ilaria Rodella, Silvio Tursi  

Salute bio-psico-sociale al centro dei processi educativi

Anna Paola Capriulo , Corrado Celata, Nicola Iannaccone, Manfredo Tortoreto

Cittadinanza  digitale, comunità in rete

Paolo Landri, Paulo Lima, Annamaria Palmieri, Paola Salomoni, Nazario Zambaldi

PARTE III

Si può fare

Risorse economiche e modifiche di legge necessarie 

per realizzare la Scuola Sconfinata.

Riflessioni e proposte

Annabella Coiro, Cesare Moreno, Francesco Muraro, Milena Piscozzo

Conclusioni

Micaela Bordin, Annabella Coiro, Gabriella Fontana, Nicola Iannaccone, Sabina Langer,

Antonella Meiani, Roberta Sala

Corrispondenza dalla Colombia

Viva el paro nacional. 10 giorni di proteste in Colombia.

Matilde Orlando – una delle due autrici di “Compagni” – è in Colombia e ci manda questa corrispondenza che volentieri pubblichiamo.

Da 10 giorni la Colombia, il Paese piú diseguale del Sud America secondo el Índice de Desarrollo Regional para América Latina é in Paro Nacional.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso

La prima scintilla è scoppiata il 28 aprile, con la prima giornata di sciopero nazionale indetta contro la riforma fiscale presentata dal ministro dell’economia Alberto Carrasquilla. La riforma che puntava a raccogliere 23 biliardi di pesos si basava su un inasprimento delle imposte e su un aumento generale del costo della vita per la classe piccola e media.

Una delle misure piú impopolari della riforma era l’aumento dell’Iva del 19% sui beni di prima necessità e sulla benzina. Impopolare anche la decisione di stabilire un’Iva sui servizi funerari in piena pandemia. La Colombia attualmente sta attraversando la terza ondata dei contagi, gli ospedali sono in rosso e il sistema sanitario è al collasso.

I latifondisti e i grandi imprenditori invece non venivano sfiorati dalla riforma fiscale. In 3 anni di governo Duque sono state approvate altre due riforme basate sull’aumento progressivo delle esenzioni fiscali alle classi alte.

Una classe dirigente che governa in modo sfacciatamente oligarchico, talmente disconnessa dalla realtà da non sapere quanto costa un uovo (lo stesso ministro dell’economia non ha saputo rispondere alla domanda).

Per queste e altre ragioni la riforma tributaria è stata rifiutata in maniera trasversale.

Dopo 5 giorni di manifestazioni il presidente Duque ha chiesto il ritiro della riforma. Il ministro Carrasquilla si è dimesso.  

Nonostante questa prima vittoria le manifestazioni non si sono fermate. Le richieste della piazza si sono estese: si vogliono le dimissioni del governo e l’abolizione di altre due riforme, pensione e salute, che privatizzerebbero ulteriormente il sistema sociale condannando all’indigenza un gran numero di anziani e alla precarietà sanitaria la gran parte dei cittadini.

Il governo Duque perde progressivamente consensi anche grazie alla vicinanza con l’ex presidente Alvaro Uribe, personaggio politico con una storia lunga e discussa. Vale la pena rimandare (per approfondire il tema) alla serie El Matarife, facilmente reperibile su You Tube. 

Le manifestazioni

Gli studenti universitari e le università sono in sciopero a tempo indeterminato. Serrata anche dei tassisti e i camionisti. Lo sciopero di quest’ultimi sta causando allarme e preoccupazione nell’opinione pubblica dal momento che nel Paese la distribuzione dei prodotti passa esclusivamente via terra. La Fiscalia avrebbe già deciso di espropriare i veicoli che stanno bloccando le vie pubbliche.

Dalla parte del Paro Nacional anche la Minga indigena: una carovana di 5000 indigeni sta percorrendo la Colombia con l’obiettivo di raggiungere la capitale. 

Le proteste hanno fin dall’inizio ha assunto una deriva violenta. Moltissimi i mezzi di trasporti danneggiati, i supermercati presi d’assalto, le banche messe a ferro e fuoco, i simboli della città profanati, i CAI (le stazioni di polizia di quartiere) bruciati.

La polizia ha risposto a questi atti con la repressione, sparando sui manifestanti. L’uso indiscriminato di carri armati, manganelli, lacrimogeni, pistole, fucili, armi elettriche e di stordimento da parte dell’Esmad (Escuadrón Móvil Antidisturbios) ha fatto scattare l’allarme internazionale.

Dal 28 aprile ad oggi ci sono stati piú di 1700 casi di violenza, 831 detenzioni arbitrarie, 10 vittime di violenze sessuali da parte della polizia. Di oltre 300 persone si sono perse le tracce. Sono 37 i morti.

Ma le forze dell’ordine uccidono anche senza divisa. È di ieri (6 maggio) il video di poliziotti in borghese che sparano per strada a Medellin. 

Hanno militarizzato il Paese. Elicotteri sorvolano i cieli colombiani, di notte le città si trasformano in barricate.

Piú pesante la situazione nei quartieri marginali delle città che stanno pagando il prezzo piú alto. Apro una piccola parentesi per specificare che le città colombiane seguono una struttura diversa da quella classica centro-periferia dal momento che vi è una proliferazione di periferie (che non sempre coincidono con la marginalità) e piú di un centro storico (che è in alcuni casi coincide con una zona marginale e percepita come insicura). Ciò accade in particolar modo in Bogotà, una città di 9.000.000 di abitanti dove la separazione geografica dei quartieri contribuisce a disegnare una città di caste.

Vi è dunque una pluralità di insurrezioni che si dipanano nei vari quartieri (grandi come Milano) tanto diverse da essere quasi incomparabili.

Per 5 giorni non ho fatto che chiedermi: ma che coraggio ci vuole per scendere in piazza a manifestare sapendo che molto probabilmente non tornerai a casa vivo?

Si fa presto a dire rivolta. Preferirei non dover utilizzare questo termine.

Se penso a questi 10 giorni le uniche parole che mi vengono in mente sono incontenibile, insorgente, emergenti.

Una fioritura spontanea di proteste.

Dappertutto, ogni giorno – mattina, pomeriggio e sera – pullulano le manifestazioni pacifiche. Cortei colorati, iniziative culturali e artistiche, graffiti e murales, concerti, sit – in, assemblee permanenti. E poi ancora velatones (cortei notturni con le candele) e processioni di macchine e moto che suonano il clacson.

Chi non se la sente di stare in strada protesta da casa. Los cacerolazos (intraducibile: affacciarsi al balcone e sbattere ripetutamente un mestolo sulla padella/pentola) hanno configurato in Sud America una forma altra di esprimere el inconformidad verso lo stato di cose presenti. Sono suggestivi e potenti.

Si fa presto a dire rivolta?

I colombiani e le colombiane non possono piú fare a meno di protestare. E questo non poterne piú fare a meno è, forse, molto piú originario della rivolta.

Strategie future

Oltre alla censura (stanno sparendo da facebook e instagram i lives piú incriminanti – quelli che mostrano le sparatorie, le teste spaccate, i morti e gli occhi cavati) e alla narrazione mainstream che ficca tutto nel calderone del vandalismo (ridicola la notizia del principale telegiornale RCN che trasforma una marcha a Cali in una celebrazione per l’annuncio del ritiro della riforma) preoccupa una eventualità.

Duque potrebbe prendere la decisione di dichiarare el estado de commocion interior, una sorta di stato di eccezione previsto dalla Costituzione che conferisce pieni poteri al Presidente della Repubblica. In un estado de conmocion il Presidente può sospendere il potere dei sindaci e dei governatori regionali, realizzare ispezioni a domicilio senza previa autorizzazione, può detenere persone sospettate di essere coinvolte in azioni delittuose durante i cortei. Ha pieno potere sulle reti sociali, televisione e radio e può proibire qualsiasi tipo di manifestazione.

Una possibilità che fa paura.

Chiediamo appoggio da parte di tutti e tutte.

Che se ne parli.

Per oltre cinque giorni Colombia ha bruciato nell’assoluto silenzio e indifferenza dell’Europa e dell’Italia. E questo non deve piú accadere.

#vivaelparonacional

 

 

 

Il maestro della pedagogia a piedi scalzi.

Carlo Dal Lago (1950-2014, Bergamo) è stato maestro elementare, scrittore di fiabe e filastrocche per bambini, creatore e coordinatore di servizi per l’infanzia e per la disabilità, organizzatore culturale e militante comunista.

Amava definire il suo metodo educativo TAT (acronimo dell’espressione dialettale bergamasca “Tat Al Toc”, per dire che si trattava di un metodo approssimativo e poco sistematico) oppure “pedagogia a piedi scalzi”:

“Pedagogia a piedi scalzi perchè mi ricordo che al tempo della Cina maoista avevo letto di questi medici a piedi scalzi che non erano proprio medici, avevano giusto un’infarinatura di medicina, che venivano mandati per le campagne cinesi come presidio sanitario.

La Cina non aveva medici abbastanza e nel tempo in cui ci si sarebbe impegnati a formare dei medici veri occorreva andare incontro alle emergenze ed alle esigenze quotidiane.

Ci si accontentava di questi medici a piedi scalzi che erano comunque un passo avanti rispetto a nessun medico.

Così ho fatto il maestro a piedi scalzi in attesa dei pedagogisti che non sono mai arrivati. A dir la verità sono anche arrivati ma non mi è sembrato potessero darmi molto di più di quanto mi avevano dato Don Milani, Mario Lodi, Celestin Freinet e Andrè Lapierre, per dirne alcuni.

O forse non sono stato attento.”

BAMBINI E POESIA

Diciamolo subito così ci togliamo il pensiero: non è che i bambini facciano poesia.

I bambini sono lì alle prese con il linguaggio, con la parola. Stanno cercando, e non lo fanno nemmeno consapevolmente, di impadronirsi delle parole perché sono le parole che ci fanno uomini, che ci permettono di rapportarci con il mondo come esseri umani.

Di fronte a questa montagna di parole che è il linguaggio loro si arrampicano, rotolano, scivolano, cadono e risalgono, provano e riprovano, giocano.

Forse è proprio “giocano” la parola che più si avvicina al loro atteggiamento.

Certo c’è anche un atteggiamento scientifico, vale a dire che man mano fanno esperimenti di uso delle parole, si avventurano su questa montagna dove intuiscono dei sentieri che magari dopo un po’ abbandonano perché non portano a nulla e in altri casi ripercorrono costantemente finché il sentiero, calpestato e ricalpestato, diventa più evidente, e man mano riescono a costruirsi una cartina, una mappa delle parole e delle strutture della lingua.

Ma anche questo atteggiamento scientifico non è in fondo che un gioco, vale a dire un’attività che non è finalizzata coscientemente all’apprendimento, non ha scopo che in sé stessa.

E questo è un elemento straordinariamente positivo perché gli permette di accettare sbagli ed errori senza cadere nella frustrazione che li porterebbe alla rinuncia dell’esperienza.

Possiamo dire che imparano la lingua perché gli serve e perché non ne devono rendere conto a nessuno.

Per motivi professionali sono a contatto con i bambini degli asili nido e mi vien da dire che i bambini imparano a parlare così come imparano a camminare, per prove e tentativi sotto la motivazione di raggiungere un oggetto, una persona.

Probabilmente la parola ha anche qualcosa in più. Ci permette di raggiungere una persona anche senza muoverci, ci permette di chiamarla, e ci permette di evocare un oggetto anche se non è presente. Ci costruisce il pensiero.

E costruendo il pensiero costruisce il mondo.

In questa prospettiva posso dire che i bambini non fanno poesia ma certamente anche che, proprio perché sono sperimentatori giocosi, possono costruire giocattoli linguistici inaspettati.

Non saprei nemmeno bene definire cosa è una poesia e cosa fa un poeta ma se dovessi provarci a farlo direi che il poeta scuote le parole, le agita, per riproporcele in una composizione inaspettata, in un’articolazione, in una struttura che era lì sotto i nostri occhi ma nascosta.

Riallinea le parole che tutti conosciamo in un modo che ci sorprende e che vanno a toccare parole che ci portiamo dentro e che sono un po’ addormentate.

E lo fa apposta.

Un po’ questo lo fanno anche i bambini.

Nei loro tentativi di impadronirsi e di dominare il linguaggio, e proprio perché questo dominio è ancora incerto, riescono a volte a vedere le parole in modo nuovo. 

L’inesperienza li aiuta.

Ricordo un bambino di tre anni che di fronte ad un salice piangente mi ha detto: – Guarda, una fontana d’albero.

Fosse stato più grande probabilmente mi avrebbe detto: – Guarda, quell’albero sembra una fontana.

E’ sempre la stessa idea ma quanto è più suggestiva la prima formulazione che mette in primo piano la fontana.

L’infanzia è anche un periodo in cui i bambini cercano di uniformarsi agli adulti perché questo è il modo di crescere ma siccome sono nuovi a questo mondo il loro sguardo non è ancora omologato, vedono alcuni aspetti che noi non vediamo.

In questo senso si avvicinano ai poeti.

Senza farlo apposta.

Tocca a noi che stiamo con loro, che lavoriamo con loro, essere attenti a quello che dicono, essere capaci di accogliere le loro espressioni senza ricondurle immediatamente a quella che pensiamo sia la visione corretta.

In questo senso se valorizziamo le loro metafore inconsapevoli, le ricomposizioni sballate, gli errori, li aiutiamo a costruirsi un dominio più vasto della parola e del pensiero.

Questo non ci esime dallo spiegargli le regole dell’ortografia e della grammatica ma ci permette di spiegargli che le regole sono costruzioni umane, che possono essere rinnovate o infrante, che possono portarci a regole nuove.

In una seconda elementare, o una terza non ricordo bene, stavo facendo costruire ai bambini un vocabolario. Loro sceglievano le parole e poi cercavano di darne una definizione.

Due bambine avevano scelto la parola “tuta” e la loro definizione era: ce la mettiamo a giocare.

Commettendo un errore piuttosto frequente, o forse in preda ad una pulsione inconscia del loro vissuto, quando mi portarono il biglietto la definizione era stata così formulata: tutta: ce la mettiamo a giocare.

Naturalmente ho fatto notare l’uso improprio della doppia t ma abbiamo concordato che anche questa formulazione aveva un significato e abbiamo messo così due definizioni sul vocabolario.

Insomma.

Il laboratorio di poesia non è lo spazio in cui i bambini imparano a scrivere poesie.

Può essere lo spazio in cui imparano a giocare con le parole, a sperimentare usi diversi delle parole, a divertirsi con le parole. 

Se, e sottolineo il se, da questi esperimenti esce qualcosa che ai nostri occhi di adulti sembra poesia tanto meglio. Ne avremo una gratificazione. 

Ma non è il risultato atteso.  Perché lo spirito soffia dove vuole e spesso si astiene anche dal soffiare. 

Quello che ci importa è il processo, in questo caso il gioco.

Di seguito bisogna anche dire che un laboratorio di un’ora e mezzo è davvero una piccola esperienza.

Può avere qualche significato se lo si considera solo come tale. Una piccola esperienza, un’occasione, uno stimolo a partire dal quale continuare il gioco. 

Quello che mi riprometto di fare è di portare la lingua come si porta un giocattolo. 

Vorrei provare a inventare per l’occasione alcuni marchingegni che dimostrino come le parole si possono agitare e scuotere per scoprire nuovi usi.

C’è un attrezzo, materialmente concreto, che si può tenere in mano, che serva a costruire una filastrocca?

C’è un cacciavite per smontare e rimontare le parole?

Esiste un divagatore di pensieri che strizzi le metafore in modo che ne esca un succo di frutta lirico?

C’è una macchinetta nella quale da una parte si infilano le parole e dall’altra si sfilano le poesie?

C’è un grattafantasia che, opportunamente sfregato tra i capelli, produce testi scintillanti?

Staremo a vedere.

Dopo di che agli insegnanti non ho molto da dire se non di seguire il proprio uzzolo personale e farlo giocare con l’uzzolo dei bambini.

Evitando di trasformare il gioco in esercizio perché detesto gli esercizi almeno quanto gli eserciti.

Mi piacerebbe che alla fine non ci fossero solo degli insegnanti che propongono attività di gioco sul linguaggio (per le quali a partire dalla Grammatica della Fantasia di Rodari e dai Draghi Locopei della Zamponi si è sviluppata una buona letteratura didattica) ma insegnanti pronti ad accogliere quelle divagazioni dai percorsi linguistici che nella routine quotidiana della scrittura in classe emergono senza cercarle.

Funghi di poesia, come li ha chiamati una signora disabile del gruppo con cui costruisco ogni mese un giornale.

Carlo Dal Lago

LETTERA APERTA ALLA SCUOLA CHE NON AVVERRÀ’. Collettivo SINEDDOCHE

Diamo volentieri ospitalità a questa lettera aperta che parla di un tema che dovrebbe star a cuore a tutte e tutti noi.

Il nuovo concorso straordinario 2020 poteva essere un’occasione ed è stata mancata. La pandemia ha radicalmente cambiato le vite di tutti e la scuola è tornata al centro dell’attenzione. Finalmente! Tutti, giustamente poiché è cosa pubblica, hanno parlato di scuola. Tranne i ragazzi e le ragazza e chi poteva cambiarla. Perché formulare un concorso straordinario senza che lo sia veramente? Perché ricalcare un concorso simile all’ordinario del 2016? Diamine, c’è una pandemia! Si parla di DAD! Perché chiedere ai candidati di simulare delle unità didattiche di apprendimento, o lezioni o segmenti di esse, come se fuori non ci fosse l’apocalisse? Infatti, chi ha progettato ambienti di apprendimento a distanza è stato bocciato. Chi non ha seguito pedissequamente qualcosa di cui si è dibattuto affinché fosse superato, è stato escluso. Così dicono i reduci dalla trincea. Ma le commissioni erano stanche e provate da mesi duri ed è comprensibile. Commissioni senza logiche pedagogico-educative d’avanguardia, univoche.

Ecco che allora si recluta come si può e non come la pandemia ci ha indicato. E dunque, perché non provare a porre quesiti reali applicabili al contingente? Perché fingere di fare bene un compito che non serve a nulla e a nessuno? I docenti, seppur precari (con almeno tre anni duri alle spalle) sanno bene dove andare a parare, non dove e come pascolare. Se a campione una commissione formata da pedagogisti, ricercatori, accademici, presidi in quiescenza, genitori, valutasse le prove dei candidati, troverebbe un mondo e non una lista di condannati a morte.

La scuola deve essere inclusiva. Gli spazi vanno rivisti, sia quelli fisici che quelli di apprendimento e, allora, perché non il reclutamento? Dunque questo concorso, nato proprio in pandemia, perché è stato progettato come se non lo fosse? I docenti sono duttili, resilienti, hanno la capacità di intercettare e perché invece devono replicare ciò che probabilmente non ci sarà più? E’ stata fatta alla comunità educante una grande offesa, un grande torto. Sono stati valutati con la censura. Si è negato ciò che è tuttora in corso. Si è rimossa una pandemia. Non andavano fatte, dunque, queste prove? Nei mesi scorsi molto se n’è parlato. Una volta bandite, andavano espletate, ma dando la possibilità di rispondere a quesiti che parlavano di esami di maturità (nel caso della secondaria di secondo grado) con risposte che prevedessero, almeno, la possibilità di un esame orale, come già avvenuto per lo scorso anno scolastico. Prevedibile? Sì. Nulla di tutto ciò è accaduto. Come se fosse il 2016. Ma vi pare reale o è distonia? O sciatteria? Dunque le commissioni più ligie si sono adeguate accettando che si parli nel 2021 ancora di programmi, di griglie di valutazione, di scritti alla maturità canonica. Chi ha concepito queste prove? Perché? Come si può chiedere ai docenti di resettare il presente? Perché spendere soldi pubblici per un concorso che di straordinario ha solo il ricordo del precedente? E’ stata fatta una prova dunque fuori fuoco. E’ stata fatta una prova che accetta le buone conoscenze del tempo prima del Covid. La colpa può dunque essere degli inermi candidati o della ligia eventuale commissione di turno? No! Un cortocircuito imbarazzante.

C’è chi ha obbedito e chi ha trasgredito, osando ed entrando in nuove dimensioni sincrone ed asincrone, per onestà, ed è stato ritenuto non idoneo. Ma non è colpa della commissione che si è attenuta alla regola, al bando surreale. Peccato che la regola fosse sbagliata. E così si offendono docenti, presidenti, commissari, formatori, ricercatori, pedagogisti, ma soprattutto intere famiglie e intere generazioni di giovani che hanno bisogno di essere intercettati. Peccato che tutto cadrà nel dimenticatoio del tira a campà in un momento storico unico in cui la scuola deve fare la differenza. Oltre la retorica della DAD dei banchi a rotelle, dei protocolli, delle rime buccale, c’è anche questo. Ci sono soldi investiti e traditi e occasioni perdute, ancora una volta.

Collettivo SINEDDOCHE

15 maggio ore 15:00: incontro con Mariateresa Muraca

Siamo felici di annunciare che sabato 15 maggio alle ore 15:00 organizzeremo – in collaborazione con INDICI PARITARI PIU’ DONNE NEI TESTI SCOLASTICI E UN NUOVO LINGUAGGIO un incontro in diretta FaceBook e in gruppo di lavoro Zoom con Mariateresa Muraca dal titolo:

LA DIFFERENZA DI ESSERE DONNE COME MOTORE DI “POLITICA PRIMA”. Riflessioni a partire da un’etnografia collaborativa col Movimento delle Donne Contadine in Brasile.

Obbedienza critica

L’obbedienza non è più una virtù, eppure don Milani la praticava con rigore. 

Nel suo libro Tutti i banchi sono uguali. La scuola e l’uguaglianza che non c’è (Einaudi, 2017), Christian Raimo dedica un capitolo a don Lorenzo Milani, polemizzando con piena ragione con quanti, da Paola Mastrocola a Ernesto Galli Della Loggia, lo descrivono come il profeta di una scuola ‘facile’, ‘buona per tutti’, ‘permissiva’ e ‘priva di impegno serio’.

La realtà storica, confermata più e più volte dalle testimonianza degli ex-allievi di Barbiana e di coloro che don Milani l’hanno conosciuto, era affatto diversa.

Nelle stanze della canonica sul Mugello si faticava otto ore, trecentosessantacinque giorni l’anno, trecentosessantasei in quelli bisestili, perché il riscatto sociale e culturale che don Lorenzo invocava per i suoi ragazzi doveva passare non da generose quanto paternalistiche elargizioni dall’esterno, ma da un processo di liberazione interiore, lungo e duro, ma proprio per questo di valore enormemente maggiore.

Nella complessa figura di don Milani, tuttavia, c’è, fra le molte, una questione che appare ancora controversa e degna di approfondimento.

Com’è possibile – per riassumerla in una domanda – che un uomo tanto deciso a difendere le sue idee e le sue azioni sociali (e politiche), sia stato anche tanto fedele alla Chiesa cattolica da apparire, a volte, persino un acritico esecutore di ordini?

Questa potrebbe, almeno, essere l’impressione.

C’è un piccolo libro pubblicato dalla stessa casa editrice che diede alle stampe Lettera a una professoressa, che forse ci può aiutare nella disamina della questione. E’ Don Lorenzo Milani: l’obbedienza nella chiesa. (Con una introduzione di Michele Gesualdi. Libreria Editrice Fiorentina, 2011)

Solo a leggere l’elenco di quelle che possiamo tranquillamente definire vere e proprie angherie subìte da don Lorenzo ci sarebbe da mettere alla prova la pazienza di un santo (e chissà che prima o poi…): 

nel 1951, quando i vescovi toscani emanano un decreto che dà un’esplicita indicazione di voto per la Democrazia Cristiana, don Milani ne esegue le direttive, (anche se subito dopo decide di partire per un viaggio di una settimana in Germania, proprio a ridosso della scadenza elettorale);

nel 1954, dopo la sua prima esperienza di curato a san Donato di Calenzano, viene spedito, con evidentissimo intento punitivo, quasi un confino, in una allora sconosciuta località del Mugello, che egli stesso non riesce nemmeno a trovare sulla carta geografica;

nel 1958 il Sant’Uffizio ordina il ritiro dal commercio di Esperienze pastorali (uno dei più straordinari saggi di analisi socioeconomica che a mio parere è stato scritto nell’Italia del Novecento);

nel 1963 il vescovo di Firenze gli ordina di non partecipare come relatore ad un convegno organizzato dal comune di Calenzano al fine di organizzare un doposcuola destinato ai ragazzi che necessitassero di aiuto scolastico.

Questo per citare solo gli episodi più eclatanti.

E pure, in una esistenza che non è stata certamente povera di pressioni, che sono arrivate anche alle minacce e alle contumelie, don Lorenzo Milani si è sempre dichiarato, in modo esplicito e persino aggressivo, fedelissimo servitore della Chiesa.

Su questo atteggiamento è possibile solo, io credo, tracciare delle ipotesi che cerchino di interpretarne origini e cause, senza la presunzione di esprimere certezze o soluzioni definitive.

A me pare che ci siano almeno due ragioni principali che spiegano la fedeltà obbediente di don Milani.

La prima deriva dal fatto che la sua vocazione sacerdotale non nasce da scontate tradizioni di famiglia. 

Anzi, tutto il contrario.

La famiglia di origine, genitori (Albano Milani e Alice Weiss) e avi precedenti, era tutt’altro che cattolica. La madre era ebrea, anche se poco interessata a praticare. Il padre era un chimico agnostico.

I figli (Lorenzo, il fratello Adriano e la sorella Elena) ricevono il battesimo (“fascista”, come scriverà don Milani anni dopo) solo nel 1933, dopo l’emanazione delle leggi razziali.

Lorenzo entra in seminario nel 1943, a vent’anni, dopo un’esperienza a Brera come allievo del pittore Hans Joachim Staude.

La sua, quindi, non sarà una vocazione né automatica né semplice. Quando entra in seminario non ha il pieno sostegno della famiglia. La sua è una scelta di grande convinzione, al di là delle convenienze e dei conformismi.

La seconda ragione è che don Lorenzo aveva imparato a conoscere benissimo ambiente, consuetudini, stanze, corridoi e anfratti della Chiesa, e di quella fiorentina in particolare, e aveva probabilmente maturato la convinzione (esattissima sia nella forma che nella sostanza) che solo un rigore pressoché assoluto nell’obbedienza alle direttive della gerarchia, quand’anche fossero vessatorie se non addirittura gratuite, avrebbe garantito al suo agire critico il massimo della credibilità e, nello stesso tempo, della insospettabilità per chiunque volesse vederne disegni di destabilizzazione dell’ordine ecclesiastico costituito.

Come scrive lo stesso don Milani ne “L’obbedienza nella chiesa”:

«Per essere buoni rivoluzionari bisogna essere migliore dell’autorità. E’ più difficile il mestiere del ribelle che quello del conformista: ci vuole più studio (l’altro trova tutto già fatto)».

Carlo RIDOLFI

Guernica è (anche) opera nostra

Si racconta che alla fine degli anni ’30 del secolo scorso, l’ambasciatore nazista di Francia Otto Abetz si fosse recato nell’appartamento parigino di Pablo Picasso e, notando sul tavolo una foto del quadro Guernica, gli avesse chiesto: “Avete fatto voi questo orrore, Maestro?” Al che l’artista rispose: “No, è opera vostra.”

Capita anche a noi, a volte, di citare questo aneddoto e queste frasi.

Quello che non diciamo mai è che quel giorno, il 26 aprile 1937, a bombardare Gernika c’erano anche aerei italiani. 

Raccogliamo e rilanciamo la sollecitazione a riprendere le ricerche e il dibattito storico che proprio oggi, a 84 anni dal bombardamento, arriva dal Museo de la Paz di Gernika.

Fundación Museo de la Paz de Gernika

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EUSK / CAST / ITA

Gaur, 84 urte geroago, Gernikan gertatutakoa gogoratuko dugu berriro. Gaur egun oraindik gai asko daude ikertzeko, eta horien artean, Gerra Zibilean eta Gernikako bonbardaketan Italiak izan zuen parte-hartzeari buruz sakondu nahi duten italiar hainbeste kiderekin lan historikoa, ikerketakoa eta hezkuntzakoa egin ahal izatea. 

Oraindik harritu egiten gaituzte hainbeste bisitari italiarren harridura-aurpegiek; izan ere, gure Bakearen Museora egindako bisitan, adierazten dutenean honen inguruan (Italiak Gernikako bonbardaketan izan zuen parte-hartzeari buruz) ez dutela ezer entzun edo ikasi. 

Lan handia egin behar da datozen belaunaldiek, Gernikakoek, Italiakoek, Alemaniakoek, gertatutakoa ahaztu ez dezaten.

Hoy, 84 años después volvemos a recordar lo ocurrido en Gernika. Todavía hoy sigue habiendo muchos temas por investigar, y entre ellos, el poder hacer un trabajo histórico, de investigación, educativo con tantos colegas italianos con interés en ahondar sobre la participación italiana en la Guerra Civil y el bombardeo de Gernika. Aún nos sorprenden las caras de perplejidad de tantos visitantes italianos que, en su visita a nuestro Museo de la Paz, dicen no haber estudiado nada sobre la participación italiana en el bombardeo de Gernika. Mucho trabajo por hacer para que las generaciones venideras, de Gernika, de Italia, de Alemania no olviden lo ocurrido.

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Oggi, 84 anni dopo, ricordiamo quanto accaduto a Gernika. Ancora oggi sono molti gli argomenti da approfondire, e tra questi poter fare un lavoro storico, de ricerca, educativo con tanti colleghi italiani interessati ad approfondire la partecipazione italiana nella Guerra Civile e ai bombardamenti di Guernica .

Restiamo comunque sorpresi, dai volti perplessi, di tanti visitatori italiani che, in visita al nostro Museo della Pace, dicono di non aver studiato nulla sulla partecipazione italiana al bombardamento di Guernica. 

Tanto lavoro da fare ancora perché le generazioni future, da Guernica, dall’Italia, dalla Germania, non dimentichino quello che è successo.