“Bisogna svirilizzare la guerra e costruire una pace che la cancelli”

Intervista a Adriana CAVARERO di Renzo COCCO (da VERONA FEDELE 1maggio 2022)

Adriana CAVARERO

Adriana CAVARERO nasce a Bra (Cuneo) ne 1947, ma si trasferisce ancora giovane a Verona. Dopo la laurea in Filosofia all’Università di Padova, dove lavora fino al 1984, inizia l’insegnamento all’Università di Verona quale ordinaria di Filosofia politica. Conosciuta per i suoi studi di filosofia antica e di filosofia politica, è stata visiting professor presso importanti Università inglesi e americane quali Warwick, Berkeley, Meg York University e Harvard. Numerose le sue pubblicazioni tradotte in tanti Paesi del mondo. In particolare ha dato alle stampe studi fondamentali su Platone, Hannah Arendt e sulla questione femminile partendo dai miti e dalla radice greca della violenza occidentale. Il suo ultimo libro, edito da Raffaello Cortina, si intitola “Democrazia sorgiva”. Oggi è professoressa onoraria di Filosofia politica presso l’Università di Verona.

Le immagini che arrivano dall’Ucraina invasa dall’esercito russo di Putin sono terribili e nel contempo tragiche: eccidi di massa di civili innocenti; fosse comuni piene di cadaveri giustiziati con un colpo alla testa; violenze inenarrabili a donne, bambini e anziani; distruzioni di scuole, ospedali, teatri; intere città rase al suolo. Questo intollerabile scempio che suscita orrore pone, anche dal punto di vista etico, una serie di domande che riportano alle radici dell’essere umano: perché la guerra? Quali terribili demoni guidano l’uomo-lupo? Come si può arrivare a tali livelli di mostruosità?

Di questi temi abbiamo parlato con Adriana Cavarero, una delle più note e autorevoli filosofe italiane.

Prof.ssa Cavarero, guardando alle vicende dell’umanità si constata che la guerra, da sempre e fino ai nostri giorni, ha un ruolo decisivo nel segnare le svolte della Storia e i destini dei popoli. Nell’Olimpo c’è persino un dio che la impersona. Perché la civiltà non può fare a meno della guerra?

La guerra fa purtroppo parte della storia umana, anche nel senso che è fatta dagli uomini, è un loro prodotto, un’attività specificamente umana. Gli altri animali non si fanno guerra. Ares, il dio della guerra, è ovviamente un’invenzione degli uomini che proiettano nella dimensione del divino le loro esperienze. Quanto alla sua domanda, non legherei il fatto della guerra al concetto di civiltà. Non è la civiltà, comunque la si intenda, a produrre la guerra. Se mai, è la guerra a interrompere e a contrastare il tempo di pace durante il quale la civiltà, generalmente, fiorisce e progredisce. Quindi della guerra si può fare a meno, ma bisogna seriamente impegnarsi a pensare la pace e a far sì che la guerra diventi un tabù, qualcosa di impensabile.

Veniamo all’uomo che ne è il mefistofelico artefice. Quali sono le pulsioni profonde, i demoni che lo spingono a praticare “l’arte della guerra”, ad usare la forza e la violenza, a scegliere il male anziché il bene?

Non so quali siano le pulsioni profonde che spingono alla guerra e alla violenza, e dubito comunque che siano connaturate, che facciano parte della cosiddetta “natura umana”. Se no, lei capisce, non c’è niente da fare. Constato però che, storicamente, l’esaltazione dell’arte della guerra è collegata al predominio di una cultura e di un immaginario virilista. Se vogliamo che la guerra diventi un tabù, dobbiamo innanzitutto lavorare sullo smantellamento di questa cultura e di questo immaginario, ovvero smantellare l’idea che il vero uomo, inteso come maschio – vir – sia un essere potente, prepotente e perciò, inevitabilmente, distruttore. Io non credo che il male e il bene siano concetti assoluti, per così dire immutabili e originari. E non credo neanche che stia a noi scegliere fra il bene e il male, che questa scelta avvenga nell’assoluta autonomia di uno spirito libero. Credo piuttosto che viviamo in una cultura che ha elaborato da mille ragioni per ritenere la guerra un male giustificabile, se non necessario. Come filosofa, mi occupo di contestare queste ragioni e pensare la pace come fine possibile, ovvero come ciò a cui deve mirare il lavoro culturale di chi educa le nuove generazioni.

La polis, vale a dire la comunità, celebra i generali vittoriosi e considera eroi i combattenti morti in battaglia. Per onorare i caduti a difesa della Patria, l’ateniese Pericle si rivolge 2.500 anni fa ai propri concittadini con queste parole: “Furono uomini capaci di osare, consapevoli dei loro doveri, animati nel loro agire da un vivo senso dell’onore” che meritano “l’elogio che il passare degli anni non intacca”. Dunque la guerra (indipendentemente dall’essere offensiva o difensiva) è uno stato naturale dell’uomo e lo strumento principale dell’evoluzione della civiltà?

Lei ha fatto un ottimo esempio di quella che ho definito una cultura virilità. Ritenere che la guerra sia uno stato naturale dell’uomo e lo strumento principe dell’evoluzione della civiltà, propaga questa cultura e la rafforza. Quando leggiamo i grandi testi dei Greci, perciò, dobbiamo farlo criticamente, sennò rischiamo di fare propaganda al loro evidente marchio bellicoso e virilista. Io amo Tucidide (lo storico greco che ha riportato il discorso di Pericle agli ateniesi, ndr), la sua grandezza è immensa, ma lo leggo criticamente.

La faccia contrapposta della guerra è la pace. Ma vi sono tante paci: quella resistenza passiva e della nonviolenta; quella dell’equilibrio del terrore; la pax romana che portava a radere al suolo le città e a spargere il sale sulle macerie perché non vi crescesse più neanche un filo d’erba, ben rappresentata dalla celebre affermazione di Tacito (“fecero un deserto e lo chiamarono pace”). E c’è infine quella della ragione, dei cuori, delle menti che si basa sul principio di essere tutti uomini liberi, fratelli che condividono la Terra. Di quale pace dobbiamo dunque parlare?

Di una pace che non è un fatto, un dato, ma un fine. Una mira per un modello nonviolento di convivenza. So che non è facile, e che sembrano solo parole sentimentali e ingenue le mie. Però constato che, perlomeno per gran parte del territorio europeo, la guerra per 70 anni non aveva avuto luogo e, per la mentalità generale, era quasi diventata un tabù. Tanto è vero che, fino alla sera del 23 febbraio, nessuno di noi pensava che Putin avrebbe bombardato l’Ucraina veramente. Pensavamo che le sue fossero minacce, ma che si sarebbe fermato. In altri termini, molti di noi, compresi i cosiddetti esperti di geopolitica, ritenevano la guerra in Europa un evento impossibile. Ora che il tabù è stato violato, dobbiamo ricominciare da capo, perché la pace a cui miriamo si fa più lontana, più difficile. Parlo di Europa non solo perché sono egoisticamente europea e mi importa meno di altre parti del pianeta – me ne importa, eccome! – ma perché l’Europa, in questi settant’anni, ha potuto rappresentarsi come un laboratorio storico nel quale la guerra diventa un tabù. Pensi ad altre atrocità umane come la schiavitù. Praticata e ritenuta normale – inevitabile, utile, necessaria – per millenni, ad un certo punto, attraverso una notevole mutazione culturale, è diventata un tabù. Quindi i mutamenti culturali sono possibili.

La voce più autorevole e coraggiosa che ha condannato le guerre (compresa con forza particolare l’aggressione della Russia all’Ucraina) definendole “crudeli, insensate e sacrileghe” è stata quella di papa Francesco. Un grido, il suo, angosciato e ricorrente che sembra però rimanere inascoltato, una “voce che grida nel deserto”. Quali riflessioni le suggeriscono le parole del Santo Padre?

Il Papa è una voce importantissima per mirare alla pace. Non credo affatto che sia inascoltato; anzi, credo che la sua parola dia una spinta decisiva a coloro, credenti e non credenti, che lavorano per un mutamento culturale che ha come fine la pace. Ci incoraggia a pensare che ciò che pare impossibile sia invece possibile.

Un’altra vittima delle guerre, in particolare di questa ultima che è documentata mediatamente in ogni istante, è la verità. I massacri, le fosse comuni, le devastazioni sono imputate contemporaneamente all’aggressore e all’aggredito. I medesimi fatti, sotto gli occhi di tutti, hanno una narrazione diametralmente opposta. Il risultato è che non esiste una verità, ma tante versioni della verità. Come è possibile, in questa stordente infodemia, ristabilire il principio della “verità vera”, vale a dire dell’oggettività dei fatti e dell’assegnazione delle relative responsabilità?

Il rapporto stretto fra politica e menzogna, già noto a Platone, diventa ancor più stretto quando la politica lascia il posto alla guerra. Su questo Hannah Arendt ha scritto testi importanti: la menzogna e la propaganda sono potentissime armi di guerra e contribuiscono a rinfocolarla. Quello che mi colpisce oggi, però, non è solo l’eccesso di informazioni che impedisce di distinguere le fake news dalle verità fattuali, ma anche e soprattutto la spettacolarizzazione della guerra, trasformata in un teatro violento per il dibattito televisivo e il divertimento degli utenti. Sui social, ovviamente, la situazione è ancora peggiore. Se ne ricava un’impressione di irrealtà e naturalmente una confusione mentale che non distingue i fatti dalle finzioni.

Vorrei concludere questa intervista in una prospettiva di speranza. Le chiedo: che cosa concretamente ognuno di noi può fare per opporsi alla barbarie della guerra e per avere (uso ancora una volta le parole del Papa) “il coraggio di costruire la pace”?

Il coraggio di costruire la pace è già un gesto importante per il mutamento culturale di cui parlavo e in cui mi impegno da decenni. Intendo dire che il contrario di questo coraggio è proprio la convinzione, per così dire realistica, che la guerra appartenga alle pulsioni distruttive dell’uomo e sia perciò inevitabile. C’è sempre stata guerra e sempre ci sarà: questo è il cinismo di chi non può darsi il coraggio di costruire la pace. A rischio di sembrare folli o ingenui dobbiamo invece dire: c’è sempre stata guerra ma, se lavoriamo con coraggio a un mutamento culturale profondo, più non ci sarà. E’ un lavoro per me e per lei, per chiunque abbia coraggio, ma durerà, temo, il tempo di alcune generazioni.

Il nesso indissolubile tra antifascismo e Costituzione

Riportiamo questo articolo della prof.ssa Alessandra Algostino:

da “Il Manifesto” 25 aprile 2022


Alessandra Algostino

«Il fascismo ha tradito l’Italia, …togliendo ai lavoratori le loro libertà, conducendo una politica di guerra, una politica di odio verso gli altri Paesi, facendo una politica che sopprimeva ogni possibilità della persona umana di veder rispettate le proprie libertà, la propria dignità, facendo in modo di togliere la possibilità alle categorie più oppresse, più diseredate del nostro Paese, di affacciarsi alla vita sociale…» (Teresa Mattei, Assemblea costituente, sed. pom. 18 marzo 1947).

Nelle parole di Teresa Mattei si coglie il senso dell’antifascismo: un antifascismo che coinvolge la Costituzione tutta, un antifascismo da praticare su più livelli.

Il primo livello è il più immediato. È l’antifascismo della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, che sancisce il divieto di «riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista»: una disposizione, invero, dopo gli scioglimenti nel 1973 di Ordine Nuovo, nel 1976 di Avanguardia Nazionale e nel 2000 del Fronte nazionale (quest’ultimo, per incitamento all’odio razziale), indebitamente accantonata, nonostante aggressioni, come quella alla sede della Cgil il 9 ottobre 2021, che mostrano la pericolosità delle organizzazioni neofasciste, a partire da Forza Nuova.

Il secondo livello è la costruzione di una democrazia conflittuale, pluralista e sociale, che è antifascista nella sua essenza e rappresenta un antidoto contro il fascismo; è l’antifascismo che attraversa la Costituzione, una Costituzione armonicamente e strutturalmente antifascista.

Antifascismo è riconoscere che la democrazia è conflitto

Antifascismo è riconoscere che la democrazia è conflitto, che esiste un conflitto sociale; è fondare la Repubblica sul lavoro, nella consapevolezza che lavoratore e imprenditore non hanno gli stessi interessi e che occorre garantire il lavoratore, riequilibrando attraverso il diritto, lo sciopero e l’azione sindacale, rapporti di forza diseguali.

Antifascismo è quindi tutelare i lavoratori contro delocalizzazioni selvagge, lottare contro le condizioni servili dei falsi lavoratori autonomi, della gig economy e dei braccianti agricoli, così come contro il biopotere che si occulta dietro l’home working.

Antifascismo è rendere effettiva la libertà di manifestazione del pensiero, contro una narrazione omologante, rifiutare la logica dicotomica e artificialmente semplificatrice amico/nemico, considerare il dissenso una ricchezza per la democrazia e non criminalizzarlo e reprimerlo.

Antifascismo è creare le condizioni perché possa svilupparsi una partecipazione effettiva e consapevole, muovendo da una scuola e un’università che stimolino la riflessione critica, l’immaginazione, la ricerca libera. Antifascismo, dunque, è opporsi all’aziendalizzazione che funzionalizza il sapere alle esigenze delle imprese, degradandolo all’acquisizione di competenze spendibili sul mercato del lavoro.

Antifascismo è liberare la persona umana, promuovendo il suo pieno sviluppo, nel nome di una effettiva uguale diversità, al netto dei bisogni e dei condizionamenti sociali ed economici.

Antifascismo è garantire e favorire l’espressione del pluralismo, nelle sue forme “dal basso”, così come nei partiti, nella rappresentanza e in Parlamento.

Antifascismo è limitare il potere, equilibrandolo e dividendolo, invertendo la rotta dunque rispetto alla verticalizzazione del potere, prepotentemente accelerata con la “legittimazione” dell’emergenza (terrorismo, migranti, pandemia e guerra).

Antifascismo è ripudiare la guerra e adoperarsi per una comunità internazionale che persegua la pace e la giustizia, ricordando che «totalitarismo e dittatura all’interno significano inesorabilmente nazionalismo e guerra all’esterno» (Calamandrei), e viceversa.

Antifascismo è non introdurre discriminazioni dal sentore razzista fra i profughi e abbandonare politiche di “controllo dei flussi migratori” che causano un genocidio del popolo migrante.

Il terzo livello di antifascismo è combattere il fascismo della “società dei consumi”, che ha dato «altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali» (Pasolini), ovvero il fascismo che risiede nella competitività sfrenata del modello neoliberista che dilaga in tutti gli ambiti della società e della vita, con il suo homo oeconomicus, con la mostruosa metamorfosi (citando liberamente dal Pnrr) della persona in capitale umano, del volontariato in capitale sociale, dell’emancipazione femminile in empowerment nelle condizioni competitive.

Non si intende con questo in alcun modo diluire il senso dell’antifascismo storico, il valore della Resistenza e l’importanza della Liberazione, ma sottolineare come esso segni profondamente la Costituzione e come l’antifascismo impegni a mobilitarsi contro tutte le forme di oppressione, del pensiero, del dissenso, sociali, di genere, economiche e, non ultima, la guerra.

Appuntamento a CENCI dal 27 al 29 maggio per Mario Lodi

Iscrizioni “Mario Lodi nella Scuola di oggi” 27/29 maggio 22 partecipazione in presenza.

Per confermare l’iscrizione ai laboratori in presenza bisogna effettuare un bonifico con le seguenti cifre:
– partecipazione ai laboratori e vitto e alloggio presso la casa-laboratorio di cenci €220
– partecipazione ai laboratori in presenza senza alloggio, con i pasti consumati presso la casa-laboratorio di cenci €170
Il versamento va effettuato con bonifico alla ASSOCIAZIONE CENCI CASA LABORATORIO
IBAN IT80F0344072530000000008055 entro il 30 aprile 2022.
Ricordarsi di indicare nella causale : MARIO LODI IN PRESENZA.

compilare il link  https://forms.gle/m1z7iJwxvjYyESb78

Iscrizioni “Mario Lodi nella Scuola di oggi” 27/29 maggio 22 partecipazione a distanza

Per iscriversi alle 6 ore di laboratori e alle plenarie a distanza €. 40
Bonifico bancario con causale “donazione liberale”

RETE DI COOPERAZIONE EDUCATIVA IBAN IT48I0501812101000011769494 o con PayPal alla mail info@sequestoaccade.it
Da effettuarsi entro il 30 aprile 2022

Per iscriversi ai laboratori e alle plenarie a distanza link https://forms.gle/vzsr6oRdVSHTYoYy9

Esploratori, pionieri: non guardiani.

di Carlo RIDOLFI

E’ stato presentato ieri il Master 2023 Saperi in Transizione. https://www.tiltransition.eu/master-saperi-in-transizione/

Alla domanda “Quali profili professionali servono per la transizione eco-sociale?” ho provato a dare questa risposta.

Nello spazio educativo abbiamo bisogno, io credo, di donne e uomini che stiano sulle frontiere, non per presidiarle come confini invalicabili, ma per favorire il transito:

a) tra le discipline, per metterle in comunicazione e dialogo, e anche tra le modalità di insegnamento di una stessa disciplina. Per esempio: in una scuola in cui ormai la normalità è di classi formate da ragazze e ragazzi che arrivano da una pluralità di provenienze geografiche, culturali, etniche e religiose, che senso ha mantenere gli steccati dello studio della storia o della letteratura solamente nazionali? E’ fondamentale che sia favorita la conoscenza di Dante o di Leopardi o di Manzoni e quella dell’Impero Romano o del Rinascimento o del Risorgimento, ma ciò non dovrebbe impedire che si parli anche di Tolstoj, di Zong Acheng o di Chinua Achebe e che si racconti la storia del colonialismo e della decolonizzazione, tanto per fare solo qualche rapido esempio;

b) dalla forma scolastica canonica (quella che conosciamo tutti e che continuiamo a criticare, non spostandosi quasi mai da essa: la lezione frontale, la competizione, la valutazione solo numerica etc.) alla pedagogia popolare come pratica dell’educazione attiva (che risale, almeno – ma potremmo andare anche molto più indietro – a centro e oltre anni fa, se ci riferiamo al primo congresso mondiale della Ligue pour l’Education Nouvelle di Calais nel 1921);

c) per favorire incontri e reciproca permeabilità tra i diversi momenti e ambienti del flusso educativo, che possono essere distinti per le loro specificità (famiglia; scuola; gruppi strutturati o informali; media etc.), ma non possono essere separati, essendo l’esperienza educativa un continuum.

In un sistema di formazione continua – garantito dall’offerta pubblica con i necessari e doverosi finanziamenti – abbiamo bisogno di trasportatori e trasportatrici di saperi. Traduttori e traduttrici. Esploratori, pionieri, non guardiani di un fortilizio assediato. Per tratteggiare queste figure con due esempi letterari, ci servono Pollicini e Pollicine, lanciatori e lanciatrici di sassolini bianchi che riflettano la luce della luna (le briciole di pane le mangerebbero gli uccellini), per indicarci la strada che ci riporta ai padri e alle madri che ci hanno cresciuto, da Ipazia d’Alessandria a Thomas More, da Jean-Jacques Rousseau a Olympe de Gouges, da Pestalozzi alle sorelle Agazzi, da Maria Montessori a Mario Lodi, Gianni Rodari, Lorenzo Milani e molte altre e molti altri. E ci servono piloti di zattere, come quella che accompagna il viaggio di Huckleberry Finn e Jim lungo il Mississipi, che traducano persone e idee e traghettino saperi e pratiche verso altre sponde di possibile vita comune.

Qui il link per il crowdfunding del master: https://www.produzionidalbasso.com/project/saperi-in-transizione-borse-di-studio-per-il-primo-master-supportato-dalla-comunita/

Convenire ricreando

Qualche riflessione e anche qualche proposta

OBBLIGO E VERITA’

Convenire ricreando

Premessa

Queste riflessioni, che propongo alla lettura e alla discussione, stanno a margine del convegno “Per un diritto alla città pedagogico”, organizzato da Cultura in movimento a Corneliano d’Alba (CN) nei giorni 8-10 aprile 2022 e delle successive discussioni in comunità di pensiero e di azione come Convergence(s) pour l’education nouvelle e Scuola Sconfinata.

Sono appunti e tracce di riflessione e di lavoro che propongo alla discussione.

Intro

(Un gruppo di pellegrini, guidati dal monaco Zenone, 

diretti in Terra Santa per una crociata. Arrivano in prossimità di una pericolante passerella sospesa su un orrido, davanti alla quale si arrestano).

Teofilatto: E ora: un altro cavalcone?

Zenone: Ringraziamo lo Sommo che ci rende la via della salvazione irta di ostacoli! Transitare in fila longobarda! Seguitatemi! 

(Avanza sulla passerella, ma nessuno lo segue).

E che, dunque? Con che animo pugnerete nelle Terre Sante se non ne tenete nemmanco per trapassare un cavalcone? Che temete? Siamo mondi, ormai! Non havvi periglio da che l’eretico fu mondato!

Pellegrino: Ma allora che passi prima lui, ja!

Zenone: Vili! Vili, vili! Cantate e passate! Io vi darò l’exempio! Esso è forte, saldo! Guardate! (Comincia a saltare sulla passerella) Deus vult! Dio lo vuole! Guardate! Ecco la prova! (La passerella si frantuma e Zenone precipita nell’orrido).

Brancaleone: Ove vai, buon padre?

Pellegrini(Pregano). E adesso?

Pellegrino: Tornemo indrio!

Teofilatto: No! Mondi semo, lo monaco lo disse! Isso è sparuto: chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto!

Giovane pellegrino: Che vi siete scordato lo voto? In Terra Santa dovemo ire! Dio lo vuole!

Brancaleone: Pace, pace! Isso tiene ragione. Semo sciolti da lo voto. E se da ogni fatto dovemo trarre la sua significazione, issa è questa: Dio non lo vole, Deus non vult! Est claro.

Teofilatto: Non lo vole, non lo vole!

Brancaleone: Ergo: riprendemo la marcia, avante verso Auroc…

Teofilatto(Interrompendolo) Sssh! Non lo nomare lo loco o li avemo ai calcagni.

Brancaleone: Bene, ommeni. Sciolti, eh? Sciolti! Vai, Aquilante! La bona pace a tutti! Ognun per sé! 

Pellegrini(Rimasti indietro, interdetti) Ehi, voi! Andò ite?

Brancaleone: Eh, così, sanza meta!

Pellegrini: Venimo?

Brancaleone: No, no! ITE ANCO VOI SANZA META, MA DA UN’ALTRA PARTE![1]

(da: L’ARMATA BRANCALEONE, Italia, 1966 regìa di Mario Monicelli)

I

Mi capita spesso, da qualche tempo a questa parte, di ritornare con la mente a questa scena di un capolavoro del cinema italiano, attribuendole (in modo arbitrario, com’è ovvio) il senso di una allegoria dello stato di salute (o di mancanza di salute) dell’azione educativa che tutte e tutti cerchiamo quotidianamente di svolgere, nei nostri ambiti professionali e sociali.

Anche noi, mi chiedo, abbiamo seguito in questi anni qualche improbabile santone (o ‘moda’ pedagogica o sirena anglofila) che ci prometteva di condurci verso una terrasanta della liberazione completa? Lo abbiamo fatto con quella carenza di preparazione, di mezzi, di risorse e di intenzione costruttiva che caratterizza la compagnia creata da Monicelli e Age e Scarpelli, con tanta efficacia da aver reso idiomatica l’espressione armata Brancaleone? Siamo stati così sprovveduti e improvvidi da scioglierci come neve al sole di fronte alla difficoltà, dividendoci in minuscoli gruppetti autorassicuranti, sicuri in modo incrollabile solo nell’ andar tutti sanza meta, ma in direzioni diverse?

II

Nel frattempo, dato che il movimento reale delle cose non si arresta ad attender i disorientati, accadono fatti come quelli qui sotto ricordati, solo per fare due esempi particolari, che tuttavia credo significativi:

* la Commissione finanze del Senato vota a maggioranza una risoluzione, da proporre in aula, grazie alla quale verrebbe tolta l’IVA in caso di commercio di armi, che diventerebbero così, di fatto, ‘beni di prima necessità’.

* con 189 voti favorevoli, nessun contrario e un solo astenuto, il Senato ha approvato martedì 5 aprile, in via definitiva, il disegno di legge n. 1371, che istituisce la “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini”, già approvata dalla Camera dei Deputati. L’Assemblea di Palazzo Madama ha confermato anche la scelta della data proposta, ovvero il 26 gennaio, che coincide con l’anniversario della battaglia di Nikolajewka, il “drammatico ed eroico episodio del 1943 assurto a simbolo del valore e dello spirito di sacrificio delle penne nere”.[2]

Così, mentre potremo vendere e acquistare armi esenteIVA, accadrà che nelle città e nelle scuole italiane si celebrerà il 26 gennaio una battaglia condotta da un esercito aggressore che combatteva al fianco di quello nazista (mi permetto di consigliare di riprendere in mano qualche libro di Nuto Revelli o di Mario Rigoni Stern) e il giorno dopo si ricorderà la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz da parte delle truppe di quello stesso esercito russo che due anni prima era stato aggredito. 

Mentre noi imo spajati sanza meta nei luoghi della decisione politica si orienta il prossimo futuro e si ridefinisce il racconto storico del passato remoto.

III

Quali sono, allora, le nostre reali e concrete possibilità di azione?

Cerco di indicarne qualcuna, ovviamente senza la pretesa che quelle da me indicate siano le uniche possibili, ma con l’intento di provare a indicare almeno qualche direzione possibile.

Prima di tutto credo che sia essenziale prendere atto che la richiesta principale che ci proviene in questo tempo dai ragazzi e dalle ragazze è, a me pare, quella di avere in consegna il loro presente. Troppe volte, ci stanno dicendo, ci avete raccontato che noi siamo il futuro. Ma il futuro ce l’avete quasi per intero precluso (pensiamo alla situazione ambientale e climatica o alle prospettive di istruzione e di lavoro, per esempio), quindi rivendichiamo di poter dire la nostra qui-e-ora.

Dunque, io credo, ci sono almeno tre passaggi necessari:

  1. Attivare la presa di parola da parte dei ragazzi e delle ragazze, predisponendosi, allo stesso tempo, ad una vera ed efficace condizione di ascolto.
  2. Agire affinché il governo della cosa pubblica, in ambito sociale e culturale, sia orientato a rendere disponibili spazi e mezzi di espressione. Non confondendo direzione politica con organizzazione culturale: come troppo spesso è stato fatto, per indicare un plausibile punto di inizio di quella che a me pare una deriva che ha stravolto i compiti amministrativi, a partire dalle iniziative di un assessore alla cultura come Renato Nicolini – al quale almeno va riconosciuta l’originalità delle idee – che hanno dato la stura ad una concezione degli assessorati come organizzatori di eventi.
  3. Assegnare responsabilità e autonomia ai ragazzi e alle ragazze. 

Su questo piano io credo sia già possibile articolare alcune concrete proposte di intervento, principalmente in due direzioni:

  •  Intervenire sui linguaggi e sui contenuti. Penso, ad esempio, al grande lavoro che è in corso ormai da tempo per la ridefinizione del linguaggio da parte di gruppi come Indici Paritari – Più donne nei testi scolastici e un nuovo linguaggio, che cercano di portare nel dibattito generale e in particolare in quello scolastico una sensibilità fondamentale sulle questioni di genere.

(Vorrei anche aggiungere che anche fra noi mi pare necessaria una riflessione sulle terminologie: con tutta la sincera amicizia possibile vorrei dire che potrebbe essere interessante sostituire l’abusatissima parola cantiere con la più realistica costruzione, l’altrettanto logoro termine laboratorio con officina e, orientandoci quanto più possibile ad espungere qualsiasi connotazione bellica al nostro dire, militanza con attivismo).

  •  Intervenire sui processi. A me pare che ci siano almeno due ambiti di iniziativa e di mobilitazione che potrebbero aggregare interesse e azione:
    • La questione della cittadinanza, che ancora tiene fuori dal diritto di essere a pieno titolo italiani quasi un milione di donne e uomini, moltissimi dei quali nati qui.
    • La questione della presa di parola dei ragazzi e delle ragazze, che sia non solo (anche se è un primo passo ineludibile) ascolto reale delle loro proposte, dei loro bisogni, dei loro desideri, ma anche possibilità reale di decisione e di intervento per la trasformazione dello stato di cose esistente. In questo senso credo sia compito di una elaborazione politica ampia e condivisa (con partiti, sindacati, associazioni professionali, gruppi di rappresentanza di studenti e di genitori etc.) formulare una proposta di revisione degli Organi Collegiali previsti dai Decreti Delegati (DPR 416 31.05.1974), nella direzione di una concreta, verificabile e progressiva facoltà di decisione delle donne e degli uomini che fanno parte del processo educativo e scolastico (insegnanti, genitori, studenti e studentesse, personale di collaborazione).
    • La questione della cura e della difesa, riprendendo la proposta di creazione di Corpi Civili di Pace formulata quasi trent’anni fa da Alexander Langer[3] e costruendo (almeno) una proposta di Servizio Civile Europeo, che abbia, come minimo, queste caratteristiche:
  • Obbligo di svolgimento per ragazzi e ragazze al compimento della maggiore età (fatti salvi i rinvii per ragioni di studio o di salute)

(Ho riscontrato spesso, anche negli ultimi mesi, una sorta di diffidenza, quando non addirittura una decisa repulsione, che in ambito educativo e politico scatta quando entra in uso la parola obbligo, quasi fosse automatico riferimento ad una limitazione di libertà.

Vorrei qui riaffermare, invece, che obbligo e verità, parafrasando un gioco che forse ancora i bambini e le bambine fanno, non sono necessariamente termini antitetici e in opposizione fra loro. Non sono inconciliabili. Non dobbiamo averne paura). 

  • Se è vero, come io credo, che ogni azione è educativa e ogni azione educativa ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione, considerare un periodo di impegno interessato e obbligatorio non riconduce per forza ad una costrizione da subire passivamente, ma ad una opportunità di protagonismo e di crescita.
  • Durata di un anno, riconosciuto ai fini previdenziali.
  • In luogo né troppo né troppo poco prossimo a quello di residenza (con scelta facoltativa di ulteriore allontanamento).
  • Non organizzato dal Ministero della Difesa né dalla Protezione Civile, ma da un organismo terzo, preferibilmente non governativo e sovranazionale.

IV

Lavorare per una costruzione, attraverso spazi e momenti di officina, per un attivismo sociale e culturale che generi legame sociale e benessere, significa, prima di tutto, partire dalle fondamenta.

E’ necessario pensare ad una (molteplice) realtà organizzata, che, come tutte le realtà organizzate, ha degli obiettivi (cioè dei risultati attesi) e mette in campo delle azioni pratiche per orientarsi al loro raggiungimento.

Abbiamo cioè bisogno di pensare ad una azione strutturale (penso, ad esempio – non inventando nulla, ma richiamandomi sia ai Cos di Aldo Capitini che ai Circoli di cultura di Paulo Freire – alla costruzione di Circoli di Cultura Sociale che intraprendano azioni di studio e di formazione su elementi di base di storia, filosofia, economia, sociologia etc., ma anche di storia dell’arte, della musica, del teatro, del cinema, della letteratura, della poesia…).

V

Esistono in Italia innumerevoli realtà – organizzate o ancora in fase di germinazione spontanea, di antico radicamento storico o appena affacciatesi – che riflettono, progettano e agiscono orientandosi a mettere in discussione la forma scolastica canonica e a proporre alternative in direzione dell’educazione attiva che coinvolga tutti i soggetti inseriti nel processo educativo.

Tuttavia, sia per una resistenza atavica delle istituzioni e della più generale cultura sociale in materia educativa, sia per le non poche incomprensioni e divisioni che sempre punteggiano come chiodi sul terreno il cammino di trasformazione, queste sensibilità e queste pratiche non sono ancora riuscite a definirsi come campo culturalmente egemone.

Invitando tutte e tutti noi a cercare in priorità d’intenti ciò che ci unisce, mettendo in secondo piano (magari per accorgerci che non è così decisivo) ciò che ci divide, è forse giunto il momento di chiamarci al confronto, alla discussione e alla proposta per una Convenzione di Ri-creazione che, a partire dal prossimo settembre, definisca una proposta in pochi ma condivisi punti per rispondere insieme alla domanda A cosa serviranno l’educazione e la scuola?

Pensiamoci, insieme, per insieme ire verso una qualche meta insieme avvistata.

Carlo Ridolfi

Coordinatore nazionale

Associazione culturale

RETE di Cooperazione Educativa – C’è speranza se accade @


[1] https://www.youtube.com/watch?v=FPMR503pRYk&t=73s

[2] https://ilmanifesto.it/la-giornata-per-nikolajewska-revisionismo-e-memoria

[3] https://www.alexanderlanger.org/it/65/2778

Oltre Babele

Due esempi dagli Oscar 2022.

Per una di quelle curiose coincidenze che costellano la storia dei premi Oscar o, forse, per un disegno ben architettato dai componenti dell’Academy, entrambi i film che hanno vinto la statuetta per miglior film e miglior film straniero – Coda I segni del cuore[1] e Drive My Car[2] – hanno a che fare con l’afasia e con il suo superamento attraverso la lingua dei segni.

Il primo è un buon film, rifacimento di un precedente originale francese, che diventa ottimo nella seconda parte. Il secondo è un bellissimo film, dall’inizio alla fine.

In I segni del cuore si racconta di una famiglia di pescatori nel Massachussets, nella quale tre componenti (padre padre e primogenito) sono sordi e la figlia minore è dotata di parola. Appassionata di musica, parteciperà alle selezioni per entrare in un prestigioso college specializzato di Boston. 

Ma non si tratta dell’ennesima storia prevedibile di aspirazioni all’inizio frustrate e che poi trovano il modo di affermarsi, ma di una riflessione molto dettagliata della distanza che una differenza fisica crea tra le persone e dai modi possibili per ridurla e superarla.

Tutti gli attori sono bravissimi (Troy Kotsur, che interpreta il padre, ha vinto l’Oscar come miglior attore non protagonista), ma merita una citazione particolare Emilia Jones, che nella parte della protagonista ci regala una emozionante interpretazione di un capolavoro come Both Sides Now di Joni Mitchell. 

Drive My Car, film imperdibile, tratta il tema della comunicazione tra esseri umani su molti livelli diversi.

Il protagonista è il sig. Kafuku, un regista e attore teatrale. La moglie una sceneggiatrice televisiva. Entrambi hanno subìto il gravissimo lutto della perdita di una figlia all’età di quattro anni.

Quando la loro storia si interromperà drammaticamente, Kafuku si trasferirà a Hiroshima, per mettere in scena una versione multilinguaggi (giapponese, mandarino, coreano, inglese e Lingua dei Segni) di Zio Vanja di Cechov. In questa esperienza sarà accompagnato dalla giovane Misaki (che avrebbe l’età di sua figlia se fosse viva), assunta come guidatrice della Saab 900 Turbo rossa del 1987 che Kafuku possiede e tratta con la cura dell’appassionato.

Sia in I segni del cuore che in Drive My Car c’è un momento nel quale il sonoro si ferma e personaggi e spettatori stanno per qualche secondo in un silenzio artificiale ma denso di significati. Nel film americano avviene con una preziosa intuizione di sceneggiatura, che affida soprattutto ai volti dei genitori sordi il compito di attribuire significato a ciò che sta accadendo. Nel film giapponese accade verso la fine, quando il regista e la sua autista arrivano al villaggio di origine della ragazza, immerso nella neve, per ritrovare il luogo in cui la sua casa fu travolta da una frana, nella quale aveva trovato la morte sua madre.

Macerie e ricostruzione, disperazione e conforto, un passato che rischia di trascinare in un gorgo senza fine e l’appiglio salvifico di riuscire a vivere il presente. Soprattutto nel film di Ryusuke Hamaguchi, in coerenza fondamentale con la cultura nipponica, non c’è frase e tantomeno oggetto che non siano pregni di significato. Persino i mozziconi di sigaretta (senza nostalgie per il tabagismo, ma finalmente un film che tra le altre cose esce dall’esasperazione del politicamente corretto che in questi anni vuole che a fumare siano sempre e solo i cattivi) possono diventare un piccolo altare per le persone scomparse.

Pochissima enfasi tecnologica, in entrambi i film. Anzi: se c’è da ascoltare musica si usano i dischi in vinile. Non si parla mai (per fortuna) di social. La barca e la casa della famiglia di pescatori sono  quanto di più rustico e artigianale possibile. Gli strumenti musicali sono chitarra e pianoforte a coda. Il teatro del regista giapponese, sia nella fase delle prove che in quella della messa in scena, ha come massimo artifizio tecnologico lo schermo sul quale scorrono le battute del testo nelle varie lingue e nei vari caratteri dei linguaggi che vengono usati.

E in entrambi i film la scena finale, prima del congedo per personaggi e pubblico, è affidata alla Lingua dei Segni. 

Soprattutto – senza cadere nell’esterofilia, ma valga come considerazione e auspicio – sia nel buon film medio americano che nello splendido film giapponese le vicende personali sono inserite in un più ampio contesto storico e sociale e non rimangono nel ristretto ambito di quel compiaciuto autobiografismo nel quale spesso troppo cinema italiano di questi tempi pare cadere.

Andare oltre Babele, paiono dirci questi due esempi cinematografici, dovrebbe essere sempre lo scopo di chiunque si accinga a tentar di costruire un’opera d’arte universale. 


[1] I SEGNI DEL CUORE (CODA) Usa/Francia/Canada, 2021 regìa: Sian Heder sceneggiatura: Sian Heder (dal film francese del 2014 La famiglia Bélier) fotografia: Paula Hidobro montaggio: Geraud Brisson musica: Marius de Vries scenografia: Diane Lederman costumi: Brenda Abbadandolo produzione: Vendome Pictures, Pathé Films distribuzione: Eagle Pictures con: Emilia Jones (Ruby Rossi), Tory Kotsur (Frank Rossi), Marlee Matlin (Jackie Rossi), Daniel Durant (Leo Rossi), Eugenio Derbes (Bernardo Villalobos), Kevin Chapmam (Brady), Amy Forsyth (Gertie) colore durata: 111’

[2] DRIVE MY CAR (DORAIBU MAI KA) Giappone, 2021 regìa: Ryusuke Hamaguchi soggetto: Haruki Murakami sceneggiatura: Takamasa Oe, Ryusuke Hamaguchi fotografia: Hidetoshi Shinomiya montaggio: Azusa Yamazaki scenografia: Mami Kagamoto costumi: Haruki Koketsu musica: Eiko Ishibashi produzione: C&I Entertainment, Culture Entertainment, Bitters End distribuzione: CG Entertainment, Tucker Film, Far East Film Festival con: Hidetoshi Nisijima (Yusuke Kafuku), Reika Kirishima (Oto), Tokp Miura (Misaki Watari), Masaki Okada (Koji Takatsuki) colore durata: 179’

Andare avanti

Due riflessioni in tempo di guerre fuori e dentro le nostre mura.

Prima

ἐλπίς

Nel VII secolo a.C., il poeta greco Esiodo, ne Le opere e i giorni, raccontava di come gli dèi, arrabbiati perché Prometeo aveva carpito loro il segreto del fuoco per donarlo agli uomini, mandassero sulla Terra la prima donna mortale, Pandora, resa bellissima da Afrodite, provetta nelle arti manuali grazie agli insegnamenti di Era e nella musica insegnatale da Apollo e posta in vita da Atena. Pandora (“tutti i doni”), portava con sé un vaso, datole in consegna da Zeus con la prescrizione di non aprirlo.

Ma, dato che Ermes aveva infuso in lei il carattere della curiosità, Pandora non resistette. Aprì il vaso, ne uscirono gli spiriti maligni della vecchiaia, della gelosia, della malattia, della pazzia e del vizio, che sciamarono a portar disgrazia su tutta la Terra. 

Pandora riuscì a chiudere il vaso, conservando sul fondo di esso soltanto ἐλπίς, la speranza.

Abbiamo pensato spesso, in queste settimane, alle radici antiche del nostro essere, individuale e sociale.

Sia perché la realtà della guerra – con tutto il suo portato di distruzione, di morte, di povertà e, anche, di tremenda semplificazione del pensiero, che tende a ridurre la complessità in uno schema binario buoni/cattivi, amici/nemici – si è rifatta drammaticamente evidente.

Sia perché tutte e tutti noi siamo stati travolti dalla scelta di Massimo.

Ha ancora senso, ci siamo chiest* e ci chiediamo, confidare nell’unico elemento rimasto dentro il vaso di Pandora?

E, declinando ulteriormente il concetto: ha ancora senso accompagnare ad essa – la speranza – la parola e la pratica del progetto, del gettare-avanti, del pro-jacere in vista di una costruzione alternativa alla realtà fattuale, quando in questi giorni abbiamo davanti – con dolore, angoscia, tristezza e desolazione – solamente lo jacere, l’essere distesi, immobili, fermi?

Queste sono LE domande.

Alle quali non sappiamo dare, in questo momento, una risposta chiara, definitiva e risolutiva. 

Alternativa alla realtà fattuale è la realtà virtuale, quella che, forse, ha suggerito al giovane russo che l’ha postata sui social la frase: “Non voglio il Donbass, ridatemi Netflix”.

Come ha scritto Walter Siti in un breve ma interessantissimo pezzo apparso su Domani[1]:

“…negli ultimi cinquant’anni l’Occidente ha messo a punto una mutazione tecnologica che investe la vita quotidiana dei cittadini in una misura inconcepibile prima: la post-realtà spettacolare ha preso possesso delle menti diventando parametro di libertà e benessere. 

(…)

Le multinazionali dell’intrattenimento si sono ramificate ovunque e hanno cambiato l’idea che gli individui si fanno di sé.

(…)

L’Occidente ha rimosso come in sogno la miseria e la morte rifiutandosi di vederle proprio quando con le pandemie e le disuguaglianze crescevano nella realtà; quanto siamo diventati timidi di fronte all’idea di morire materialmente per un ideale o anche soltanto di peggiorare il nostro tenore di vita e basterà il pericolo a svegliarci?

(…)

Che la scelta sia allora soltanto tra irrealtà e repressione?”.

Ripetiamo: non abbiamoo risposte, se non abbozzate, precarie, fragili.

Ciò che dobbiamo chiederci -e dobbiamo chiedercelo insieme, con riflessioni lunghe lente e approfondite – è se ci sia ancora e quale sia il senso di un agire organizzativo fondato sui progetti per un contributo alla trasformazione orientata al bene comune della realtà.

Ci pare evidente – è un pensiero che ho da molto tempo, prima di pandemie guerre e scelte individuali come quella di Massimo – che rimanere nella illusione di poter operare trasformazioni concrete solo operando sul piano del culturale e del simbolico è deleterio e auto ingannevole.

Nessuna bellezza salverà il mondo, perché se all’estetica non si accompagna l’etica, se alla conoscenza non si accompagna il discrimine tra il bene e il male, rischiamo di rimanere dei pericolosi ignavi.

Seconda

Nité

Ci sono giorni nei quali ci sentiamo, tutte e tutti, come piante che abbiano perso o indebolito gravemente le radici e per questo a rischio di scarsa tenuta, se non di vera e propria frana.

Quando chiesero a Vittorio De Sica, a proposito del suo capolavoro Ladri di biciclette il  perché di un film di quel tipo, il grande regista rispose: “Abbiamo provato a rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane, il meraviglioso nella piccola cronaca“.

Forse è giunto il momento di smettere di parlare a vanvera di un futuro più o meno remoto e darci concentrazione sul presente, sui qui-e-ora, sui mille anfratti nascosti e pure fondamentali che stanno tra le mirabolanti dichiarazioni di principio e la più retriva attenzione alle cose, al possesso, al controllo.

Dovremmo essere in grado, prima di tutto, ad aiutare noi stessi, nei nostri momenti di fragilità e incertezza, per poter provare ad aiutare un poco anche gli altri.

Abitando le terre e i giorni nei quali ci è stato dato in sorte di vivere, senza smettere di immaginarne altre e altri, ma nemmeno senza considerare quanta ricchezza umana ci sia là dove ci capita di vivere e di incrociare altri e altre.

Ci convince sempre meno il pacifismo da cortile, che si illude e si compiace di qualche canto appassionato, di qualche disegno infantile ispirato da adulti, di qualche applauso dai balconi in accoglienza di bambine e bambini che arrivino da zone di guerra.

Abbiamo a volte l’impressione che mentre ‘guerra’ sia, purtroppo, parola drammaticamente incarnata in distruzione ferite e morte in molte zone del mondo, ‘pace’ rimanga per troppi di noi una superficiale formula autoconsolatoria.

Ci ha molto colpito, delle cose che stiamo leggendo in questi giorni, una lunga intervista al filosofo senegalese Souleymane Bachir Diagne, direttore dell’Institute for African Studies alla Columbia University di New York[2].

In un passo dell’intervista Diagne dice:

Filosofare nelle lingue africane, ovvero mobilitare queste lingue in quanto strumenti della creazione e della concettualizzazione filosofica, è un compito cruciale.

E’ per questa via che la parola ubuntu, di lingua bantu, grazie all’opera di Nelson Mandela e Desmond Tutu, è diventata un concetto filosofico importante, ben oltre i confini del Sudafrica.

Ubuntu indica un legame di reciprocità e, in senso più propriamente filosofico, designa quel legame di reciprocità a partire dal quale si costituisce l’umanità.

Io ho riflettuto a lungo su un concetto di lingua wolof che ha molte risonanze con il concetto di ubuntu.

Mi riferisco al concetto di nité, che allude al divenire umano nella relazione e nella reciprocità.

Nit nitay garabam (l’uomo è il rimedio dell’uomo) è un proverbio wolof che viene evocato spesso nella vita di tutti i giorni.

(…)

Io credo sia possibile risignificare l’universale proprio a partire dal paradigma della traduzione.

Alla maledizione di Babele, alla proliferazione di tante lingue diverse, l’umanità ha reagito con la traduzione. Possiamo tradurre e tradurci. Ci saranno sempre incomprensioni e forse anche ostacoli intraducibili, ma la traduzione istituisce una relazione orizzontale e plurale in cui non c’è un unico logos, un’unica lingua della ragione universale, bensì tante lingue in cui tutti possiamo filosofare e tradurci.

(…)

Ecco, la traduzione ci serve per pensare un universale comune. Questo non significa che vada tutto liscio: la traduzione è negoziazione, ma anche conflitto e rapporti di forza.

(…)

Io penso che l’universale ci serva per segnalare l’orizzonte comune del nostro vivere insieme, per non arrenderci al relativismo dei tanti punti di vista indifferenti, all’individualismo dei tanti interessi giustapposti. L’universale ci riporta, senza alcun essenzialismo, al nostro essere umani, ad una condizione condivisa”.

Tradurre il pensiero in parola e poi in atto concreto, anche piccolo, silenzioso, mai ostentato. E poi, dall’atto concreto che produce relazione, dare nuovo significato alla parola e nuovo senso al pensiero. 

Abbiamo deciso di continuare a provarci, non da sole e da soli, ma con l’indispensabile aiuto di chiunque voglia aggiungersi, anche solo per un breve tratto, a questo cammino.


[1] Walter Siti: Meglio Netflix che il Donbass: il dilemma residuo tra irrealtà e repressioneDomani. 10 marzo 2022

[2] (a cura di) Javila Mascat. Souleymane Bachir Diagne. Nel mondo della filosofia africana. Il Manifesto. 18 marzo 2022

Una lettera del mercoledì delle Ceneri

Care amiche e cari amici,

Che conoscete la Rete

Che ci avete incontrato nei nostri convegni nazionali o nelle nostre pubblicazioni o, negli ultimi due anni, negli appuntamenti nel web che abbiamo organizzato.

Domani alcuni di noi, a nome di tutto il Consiglio Direttivo e di tutte le socie e di tutti i soci della Rete, faranno un viaggio che non si sarebbe mai voluto intraprendere. Saremo a Busto Arsizio per salutare con un ultimo addio il nostro consigliere e amico Massimo, che se ne è andato per sempre.Lo faremo stringendoci in un abbraccio fortissimo con Milly e con il loro figlio Elio. In questi anni di partecipazione più che attiva alla vita della Rete Massimo è sempre stato riferimento e pungolo per approfondimenti, analisi del reale mai superficiali, proposte e azioni educative preziosissime. Il dolore straziante che in queste ore ci attanaglia rischia di mandarci in paralisi emotiva e mentale. È come se ad un crinale della storia contemporanea, che vede succedersi a un biennio di pandemia globale una situazione di guerra nel cuore dell’Europa, si fosse aggiunto un dramma familiare e individuale che ha pari effetti devastanti. La morte è un mistero che nessuno di noi ha facoltà di dipanare e la morte improvvisa e cattiva di un uomo, di un compagno di vita, di un padre quale Massimo era lascia attoniti e sgomenti.

Nel nome della nostra associazione c’è la parola speranza: uno dei grandi doni e insieme delle grandi responsabilità che ci ha lasciato il nostro grande maestro Mario Lodi. Saremmo insinceri se affermassimo che, in queste ore, lo sguardo volto alla speranza è ancora fermo, sicuro, inscalfibile. Non è così. Siamo feriti e ferite, piegate e piegati, tramortiti da un dolore che a momenti vorrebbe uscire con un urlo, a momenti pare che ci divori internamente. Ci chiediamo, senza trovar risposta, a che scopo si sono dedicati anni di vita e di studio e di relazioni, quando tutto viene travolto in uno spreco senza appello da una fine così inattesa e repentina. Avremo bisogno – così come crediamo sia necessario per la compagna e il figlio – di un lungo, attento, cauto e rispettoso periodo di riflessione e silenzio.In questo momento ci sono angoscia, dolore e smarrimento totali, per ciò che è accaduto a Massimo.

Chi ha fede, preghi.

Chi ha forza, consoli.

Chi ha una fiammella di luce, la conservi e la protegga per condividerla quando sarà necessaria.

Noi, per ora, ci sentiamo immersi nell’oscurità e nell’estrema difficoltà di scorgere segnali di approdo in una terra delle donne e degli uomini in pace con sé stessi e con tutti gli altri.

Domani saluteremo Massimo.

Da domani dovremo considerare la sua assenza.

Da domani proveremo, se ne avremo le forze, a riprendere un’opera di manutenzione delle relazioni e di attenzione alle persone che ci faccia intravedere di nuovo una promessa di cambiamento.


Carlo Ridolfi Presidente Rete di Cooperazione Educativa A nome di tutto il Consiglio Direttivo. 2 marzo 2022

Un dialogo che ha avuto inizio (e che deve continuare).

Abbiamo chiesto a Christian RAIMO e ad Antonio VIGILANTE di iniziare un dialogo sul tema – attualissimo e controverso – dei rapporti tra scuola e mondo del lavoro. Partito sui post di Facebook, il dialogo – del quale riportiamo qui alcuni estratti – pone moltissimi interrogativi che riguardano noi tutte e tutti. Non è che l’inizio, continuiamo a confrontarci.

SCUOLA E LAVORO: PER UN DIALOGO

ANTONIO VIGILANTE

Invitato dall’amico comune Carlo Ridolfi, scrivo alcuni punti per avviare un dialogo pubblico con Christian Raimo

Appena si è diffusa la notizia della morte di Giuseppe Lenoci, il sedicenne morto durante uno strage, Raimo ha scritto sul suo profilo: “L’alternanza scuola lavoro va abolita.”

Vorrei spiegare per quali ragioni ritengo che l’alternanza non vada abolita (anche se di fatto il Pcto già non è più alternanza). Sono costretto però, per evitare ogni equivoco, a fare il giro lungo, con una premessa politica e una premessa pedagogica.

a) Premessa politica

Sono figlio di un operaio, cresciuto in una delle città italiane più difficili e povere. Sono cresciuto in una casa – un basso – di due stanze. La prima faceva da cucina e camera da letto per noi figli, e conteneva anche il bagno; l’altra era la camera da letto dei miei genitori. Questo era il livello di vita che il mio paese garantiva alla famiglia di un lavoratore. Il mio status personale era corrispondente. Era, cioè, pari a zero. Ho scoperto presto che chiunque avrebbe potuto farmi qualsiasi cosa. Un docente, ad esempio, avrebbe potuto tranquillamente insultarmi, senza ragione, davanti a tutti. Nessuno avrebbe vendicato il torto subito.

Crescendo ho sviluppato una rabbia molto forte nei confronti di una società così diseguale. Rabbia che si è espressa, negli anni dell’adolescenza, con posizioni di estrema sinistra che non escludevano, in via di principio, il ricorso alla violenza per cambiare lo stato di cose. Dopo il 1989 sono approdato gradualmente, e non senza inquietudini, ad un anarchismo nonviolento o, se si preferisce, a una visione anarchica della nonviolenza. Decisivo è stato, per me, lo studio approfondito del pensiero di Aldo Capitini. Se dovessi sintetizzare in modo estremo la mia posizione politica attuale, direi questo: penso che si debba lavorare per costruire l’uguaglianza sociale combattendo l’autoritarismo e la concezione gerarchica dei rapporti sociali, con la cultura che la regge e giustifica; e ritengo che questo lavoro vada fatto nei contesti sociali concreti. Il lavoro politico, per come lo concepisco, non ha nulla a che fare con i partiti politici e con la scelta di presunti rappresentanti del popolo attraverso le elezioni.

b) Premessa pedagogica

La mia visione dell’educazione è la conseguenza di quanto detto sulla politica. L’educazione che pratichiamo nelle famiglie e nelle scuole è malata di asimmetria, e dunque di autoritarismo e di violenza. Penso che sarebbe buona cosa passare, sul piano terminologico, dalla pedagogia alla _sinagogia_, parola con la quale indico l’idea di un educarsi insieme simmetrico, antiautoritario, centrato sulla ricerca comune dei valori. Da anni cerco insieme ad amici di lavorare ad una pedagogia antiautoritaria, critica, nonviolenta, che però non ceda ai miti facili di certa educazione naturale, come anche a quelli dell’homeschooling. L’ho fatto con la rivista Educazione Democratica, di cui sono stato direttore scientifico, e lo faccio ora come membro della Comunità di ricerca della rivista Educazione Aperta.

In sintesi: non sono un neoliberista. Ed occorre precisarlo, perché quando si assumono posizioni non allineate su temi come l’alternanza scuola-lavoro o le competenze, capita di essere accusati di esserlo. 

Veniamo dunque all’alternanza. Come è noto, è stata introdotta dalla legge 107, la legge della Buona scuola di Renzi. L’impressione è che dietro l’opposizione all’alternanza da parte di molti amici che pure condividono, almeno in parte, la mia visione politica ed educativa, ci sia questo ragionamento: Renzi è un neoliberista, l’alternanza è stata introdotta da Renzi, dunque_ l’alternanza è una cosa neoliberista. Il mio ragionamento è stato diverso. Sono un pedagogista, e mi sono formato sulla pedagogia progressista: da Rousseau ad Illich, diciamo. Tutta la pedagogia moderna progressista considera il lavoro manuale parte essenziale del percorso formativo. Molti anni fa – era il 2006 – in un libretto, mi divertii ad immaginare una scuola improbabile_. Scrivevo, tra l’altro:

“La scuola che abbiamo, borghese, in fondo ancora classista, di corto respiro, è il risultato di un sistema che ha tracciato un solco profondissimo tra il mondo delle professioni intellettuali e quello delle professioni manuali. Anche l’ultimo studente liceale sa di essere migliore dell’apprendista falegname (vittima, il più delle volte, del lavoro nero e dello sfruttamento minorile). Lui, lo studente liceale, non imparerà mai a scuola a piantare un chiodo, a tagliare una lastra, a lavorare l’orto. Nella mia scuola improbabile tutti, figli di operai e figli di ingegneri, devono apprendere un’arte manuale in un laboratorio di falegnameria, di ceramica, di elettronica o altro. Non è solo per favorire una società in cui risulti ridimensionato lo iato tra professioni manuali ed intellettuali, con la stratificazione sociale che ne consegue; è anche per l’irrinunciabile valore formativo del lavoro”. 

Quasi venti anni dopo, di fronte ad una legge che introduceva una qualche forma di lavoro nella scuola, avrei dovuto rimangiarmi quello che avevo scritto, sostenere che no, il lavoro a scuola è una cosa priva di qualsiasi valore formativo, perché Renzi non mi piace. Mi sono chiesto invece in concreto quali cosa, come docente, mi avrebbe consentito di fare l’alternanza.

Una breve sintesi delle esperienze di alternanza nella mia scuola include un lavoro presso le residenze per anziani di Siena, durante il quale le mie studentesse (uso il femminile sovraesteso) hanno raccolto le loro storie di vita, che poi sono state trascritte e che hanno preso forma in un libro che purtroppo non è stato pubblicato. Altre studentesse sono state presso le scuole della città e della provincia, analizzando le dinamiche comunicative in un contesto educativo. Alcune sono state impegnate presso l’Unione ciechi, ed hanno lavorato a creare audiolibri per le persone non vedenti. Altre ancora le abbiamo mandate presso una associazione che pratica l’ippoterapia con le persone disabili. 

L’alternanza è stata per noi anche l’occasione per sperimentare, insieme all’Indire e alla Cgil, il Service Learning. Si tratta di una pratica diffusa il tutto il mondo, anche nella sua versione sudamericana, l’Aprendizaje y Servicio Solidario. I riferimenti pedagogici sono John Dewey e Paulo Freire; ancora pedagogia progressista. Detto in breve, si tratta di questo: impegnare le studentesse in qualche attività in favore della comunità, e farlo utilizzando in modo organico lo studio disciplinare. Per fare un esempio: un liceo linguistico che organizza un corso di alfabetizzazione per migranti. Nel Service Learning si supera la chiusura della scuola al mondo esterno, che è uno dei suoi mali più evidenti, e si fa educazione civica reale: educazione all’impegno sociale.

Nel frattempo infuriava sui giornali la polemica. Il tema era, più o meno, questo: è giusto mandare gli studenti a preparare i panini al McDonald’s? Non so se davvero qualche Liceo delle Scienze Umane, qualche Liceo Classico, qualche Liceo Artistico o Scientifico o Istituto tecnico abbiano mandato le proprie studentesse a preparare i panini al McDonald’s. Se lo ha fatto, bastava chiedere conto di questa scelta educativa. E invece no: si è usato quel fatto, reale o presunto, per attaccare il nostro lavoro.

Si dirà: ma no, nessuna studentessa del Classico o dello Scientifico è mai stata mandata a fare i panini. Ci sono andate quelle del Professionale. E la questione, qui, diventa un’altra. Spero che si possa convenire però su un punto: nelle scuole non professionalizzanti l’alternanza scuola-lavoro ha permesso (parlo al passato perché, ripeto, il Pcto è un’altra cosa) di fare esperienze significative e che hanno arricchito la formazione, anche politica, degli studenti. 

Veniamo dunque ai percorsi professionali. Ho insegnato in Istituti professionali prima della Buona scuola renziana. C’erano stage, ma non importava a nessuno. Tutti lo consideravano normale. In molti abbiamo letto il ben reportage di Annalisa Camilli su L’essenziale (Morire di scuola e di lavoro a 18 anni, 29 gennaio 2020) su Lorenzo Parelli, morto durante uno stage in fabbrica. Camilli ricostruisce il contesto: un paese in provincia di Udine, al centro di un distretto industriale. “I ragazzi da queste parti cominciano a lavorare presto, subito dopo il diploma, a 16 o 17 anni”, scrive. E della giovane vittima e di un suo amico, dice: “Erano contenti di lavorare, ne avevano parlato”. A un giovane che, in una zona in cui si trova facilmente lavoro appena usciti da un centro di formazione professionale, bisogna dire che no, non deve farlo; che deve andare a scuola, studiare letteratura, storia e filosofia, e rimandare il lavoro. 

Io insegno Filosofia e Scienze Umane. Amo le mie discipline. Visceralmente. Penso che studiarle renda persone migliori. Ma non ho la presunzione di sentirmi migliore di nessuno, né considero persone mancate coloro che non le hanno studiate. Né, ancora, penso che la cultura passi necessariamente dalla scuola. Per dirla tutta, mi preoccupa molto anche il vuoto che spesso c’è dietro una formazione scolastica. In un contesto in cui quello che conta è il voto, la cultura diventa un mezzo, non un fine. E spesso è un mezzo che viene tolto di mezzo — mi si passi il bisticcio — appena non serve più.

Ma consideriamo l’ipotesi dell’abolizione degli stage nei percorsi professionalizzanti. Si tratterebbe di eliminare gli Istituti professionali e il Centri di formazione professionale: null’altro. Perché chiaramente non avrebbe alcun senso, in questi percorsi, fare scuola senza alcuna pratica. Che succederebbe? Semplicemente, ci sarebbe lavoro senza scuola. Chi vuole lavorare, se non ha una scuola che lo prepari al lavoro, va direttamente in azienda o in fabbrica. Lo scenario realistico, se si chiudessero tutti i percorsi professionalizzanti, non sarebbe quello di una liceizzazione generale, ma lo spostamento della formazione dalla scuola o dai centri di formazione alle aziende. E questo vuol dire una cosa concreta: vuol dire che se a scuola c’era la possibilità, tra le altre cose, di studiare anche italiano e storia, ora ci sarà solo_ il lavoro. Si continuerà a morire — se non si lavorerà seriamente sulla sicurezza sul lavoro: perché quello è il problema. Ma mancherebbe anche altro. Perché la scuola può essere anche — non lo è, temo: ma può esserlo — il luogo in cui è possibile formare alla coscienza dei propri diritti di lavoratore. L’esperienza del lavoro, filtrata dalla scuola, può diventare consapevole e critica. Eliminare questi percorsi significa gettare nelle mani delle aziende dei lavoratori assolutamente sprovveduti, abbandonati nelle mani di un mercato del lavoro spietato, pronti alle forme peggiori di sfruttamento.

CHRISTIAN RAIMO

1. Io sono figlio di un operaio che in trentott’anni nella stessa azienda e diventato quadro e poi dirigente e di un’insegnante, mentre i miei nonni sono contadini, donne delle pulizie e operaie. La mia emancipazione sociale è stata tutta o quasi determinata dalla scuola pubblica e dalla università pubblica. Anche per questo per la scuola democratica pubblica, oggi sotto attacco in molti modi, è un baluardo da difendere. 

2. Mi sembra che abbiamo una concezione diversa di cosa sia lavoro. Per me lavoro si può definire tale se si paga, altrimenti è volontariato, militanza, servizio, attivismo. E solo a partire da questa premessa chiaramente le nostre ispirazioni possono concordare, da Daniel Goens a John Dewey alle varie forme del socialismo e dell’anarchismo. 

3. Nessuno studente è mai andato a friggere le patatine da McDonald’s. McDonald’s dal 2016 prende circa 10mila studenti in Italia e gli dà due compiti essenzialmente: gli servono da focus group e fanno promozione aziendale. Questo è molto più utile all’azienda, le permette di fare selezione a costo zero, marketing gratuito, e brandwashing, e di impedire che si sviluppi una cultura del lavoro e una coscienza di classe. 

4. Io non penso che la formazione professionale non debba esserci, ma penso che debba essere il più possibile a carico delle aziende, che sono state inondate di miliardi per fare questo. Penso che la maggior parte della formazione professionale è appunto una formazione da operai, non certo da manager né su come funzionano i processi di produzione o rudimenti di economia aziendale. 

5. Come si sa, la novità più significativa che vuole introdurre Patrizio Bianchi sono gli Its. Gli istituti tecnici superiori. Ossia percorsi professionalizzanti post superiori in modo da selezionare e formare, di nuovo in modo gratuito per le aziende, lavoratori adatti al mercato del lavoro territoriale, il più possibile disponibile just-in time. L’idea che fonda gli Its è che la pedagogia e la didattica la facciano scuole e aziende insieme, con la prevalenza delle aziende. 

6. Il lavoro, il lavoro minorile non pagato oltre che un’ingiustizia plateale determina ovviamente un effetto di dumping, di desindacalizzazione degli altri lavoratori

ANTONIO VIGILANTE

La scuola emancipa?

La mia emancipazione sociale è stata tutta o quasi determinata dalla scuola pubblica e dalla università pubblica. Anche per questo per la scuola democratica pubblica, oggi sotto attacco in molti modi, è un baluardo da difendere”, scrive Raimo.

La scuola che emancipa. La scuola pubblica che emancipa. Sul concetto di scuola pubblicarimando a quanto ho scritto su uno degli ultimi numeri de Gli Asini. Ritengo che la scuola italiana sia sempre meno pubblica: perché sempre più chiusa in sé stessa e sempre meno in grado di dialogare con le comunità. Che la scuola italiana non emancipi, Raimo lo sa meglio di me. Le differenze sociali in Italia sono determinanti per la riuscita scolastica. Quelli che arrivano alla laurea hanno per lo più alle spalle genitori laureati. Le percentuali di riuscita scolastica per quelli che provengono da famiglie culturalmente povere sono scarsissime.

Perché la scuola non riesce a funzionare con questi studenti? Perché il rapporto educativo funziona se c’è riconoscimento reciproco. E il riconoscimento reciproco è possibile solo se c’è riconoscimento culturale. Se la mia cultura, quella scolastica, è quella giusta, e la tua cultura – che include, poniamo, il dialetto – è quella sbagliata, un abito che devi dismettere, nessuna relazione educativa è possibile. Lo studente cui si chiede di deporre il suo abito culturale per trovarsi nudo in un ambiente ostile — perché la scuola è un ambiente umanamente freddo e ostile — semplicemente scappa via.

Ma che vuol dire poi emancipare? È emancipato il laureato in lettere costretto a una vita di contratti precari e malpagati nell’editoria o a una supplenza breve? L’Italia è un paese che ha un bassissimo numero di laureati, ai quali non riesce a dare un lavoro decente. 

E che vuol dire, poi, emancipare? La vita diventa una sorta di concorso su larga scala, una specie di serie televisiva coreana con alcuni che vengono a galla mentre altri restano sul fondo. Gli emancipati e i dannati. Io vorrei che la scuola lavorasse, capitinianamente, per tutti: non per emancipare alcuni. Vorrei una scuola che lavorasse per dare dignità e valore a tutti i lavori, sia intellettuali che manuali, perché la società ha bisogno sia degli uni che degli altri. Ma una scuola solo intellettuale fa il contrario: educa tacitamente al disprezzo dell’operaio e dell’artigiano.

Cos’è lavoro?

Scrive Raimo: “Per me lavoro si può definire tale se si paga, altrimenti è volontariato, militanza, servizio, attivismo”. E in effetti gran parte delle polemiche contro l’alternanza nascono da una fallacia definitoria. Cos’è lavoro? Solo quello che si paga? Sono le sei di mattino, ho appena fatto colazione e ora sto scrivendo questa replica a Raimo. Cos’è questo? Lavoro? In un certo senso sì. Nel linguaggio comune usiamo la parola lavoro per indicare qualsiasi cosa che richieda impegno. Quando scrivo un libro, io lavoro, anche se i miei libri vendono cinque copie, e non ci guadagno nulla. Quindi no, che il lavoro si possa definire tale solo se si paga è concettualmente sbagliato. Anche quello che gli studenti fanno a scuola è lavoro; ed è, spesso, un lavoro durissimo.

Il decreto legislativo 15 aprile 2005, n. 77, articolo 2, afferma che le finalità dell’alternanza sono:

1. attuare modalità di apprendimento flessibili e equivalenti sotto il profilo culturale ed educativo, rispetto agli esiti dei percorsi del secondo ciclo, che colleghino sistematicamente la formazione in aula con l’esperienza pratica;

2. arricchire la formazione acquisita nei percorsi scolastici e formativi con l’acquisizione di competenze spendibili anche nel mercato del lavoro;

3. favorire l’orientamento dei giovani per valorizzarne le vocazioni personali, gli interessi e gli stili di apprendimento individuali;

4. realizzare un organico collegamento delle istituzioni scolastiche e formative con il mondo del lavoro e la società civile che consenta la partecipazione attiva dei soggetti di cui all’articolo 1, comma 2, nei processi formativi;

5. correlare l’offerta formativa allo sviluppo culturale, sociale ed economico del territorio.

Il lavoro, qui, è “esperienza pratica”; e la società civile conta quanto il mondo del lavoro. Ci sono tutti i margini, nella legge, per declinare l’alternanza scuola-lavoro come formazione alla cittadinanza con la metodologia del Service Learning. Per impegnare, cioè, gli studenti in percorsi di partecipazione attiva, politica, alla vita sociale, in rapporto con le associazioni del territorio. Si è preferito appiattire l’alternanza su un presunto sfruttamento, affossando una delle più grandi occasioni di formazione politica dei nostri studenti.

Il MacDonald’s_

Nessuno costringe nessuna scuola a mandare gli studenti al McDonald’s. I percorsi sono stabiliti dalle singole scuole. Se si ritiene che l’esperienza al McDonald’s non sia formativa, basta non mandare gli studenti. La palla è alle scuole. Ripeto: la legge consente infiniti percorsi di alternanza altamente formativi anche sul piano politico e civile. Si è preso la briga, Raimo, di documentarsi su cosa hanno fatto le scuole, nei percorsi di alternanza? Davvero vogliamo discutere di alternanza riducendola al McDonald’s? 

La formazione professionale

” Io non penso che la formazione professionale non debba esserci, ma penso che debba essere il più possibile a carico delle aziende, che sono state inondate di miliardi per fare questo“, scrive Raimo. Questa è una pessima uscita. Soprattutto contraddittoria. Da un lato si afferma il valore della scuola come luogo di emancipazione, dall’altro si afferma che la formazione al lavoro dovrebbe essere sottratta alle scuole e affidata senz’altro alle aziende. Uno dei sensi profondi dell’alternanza — o degli stage — è quello di formare una cultura dei diritti del lavoratore. Per far questo, occorre che l’esperienza nel mondo del lavoro avvenga in un contesto in cui possa essere analizzata in modo critico. Lasciare alle aziende, senza alcun rapporto con la scuola, la formazione lavorativa, vuol dire lasciare loro mano libera nella formazione di lavoratori perfettamente adattati alle richieste, alle esigenze, agli abusi del mondo del lavoro.

Ricordiamoci di non dimenticare

Un libro e un film.

di Carlo RIDOLFI

Non c’è nulla, in concreto – tranne il fatto peraltro non trascurabile che sono entrambi bellissimi – che apparenti un romanzo come La compagna Natalia (Sellerio Editore) di Antonia Spaliviero e un film come L’ascesa dei ricordi (Torn. Usa, 2021) di Max Lowe.

Il libro, pubblicato solo oggi, grazie al marito Gabriele Vacis e alla figlia Giulietta, è lo straordinario e al tempo stesso comunissimo racconto – forse straordinario perché comune a molti e molte – dell’adolescenza di una ragazza nata nel 1954, figlia di genitori di origine veneta emigrati alla periferia di Torino, che quindi racconta di anni tra la fine dei Sessanta e i primi Settanta.

Il film, prodotto da National Geographic e disponibile al momento sulla piattaforma Disney+, è il racconto, diretto dal figlio Max, della vita e della morte in montagna di Alex Lowe, uno dei miti dell’alpinismo moderno, e di come il migliore amico di Alex, Conrad Anker, sopravvissuto alla valanga che in Tibet, sul monte Sishapangma, nel 1999, aveva travolto Lowe e il compagno di scalata David Bridges, sia divenuto il marito della vedova di Alex, Jennifer, e il padre putativo dei tre figli rimasti orfani.

Periodi storici diversi. Contesti diversi. Storie molto diverse fra loro. 

E pure, a me pare, libro e film stanno vicini l’uno all’altro per l’enorme carico di dolore e di compassione e di amore per la vita che si respirano in ogni pagina e in ogni fotogramma.

Antonia Spaliviero è mancata nel 2015. Tutta la sua vita è stata dedicata alla scrittura per il teatro e alla promozione della cultura teatrale al di fuori degli spazi teatrali propriamente detti, come fabbriche o scuole. Ne La compagna Natalia racconta, in prima persona, della sua esperienza di alunna in un istituto tecnico frequentato per la stragrande maggioranza da maschi; dell’oratorio parrocchiale nel quale nascono i primi dubbi esistenziali e, insieme, i primi amori; della prima grande, controversa, contradditoria e insostituibile amicizia con la compagna, di classe a scuola, ma anche per un’appartenenza politica non subito condivisa dalla scrittrice che racconta, Natalia.

C’è forse – ma è attribuzione arbitraria del sottoscritto, mai esplicitata nel racconto – qualcosa che ricorda la storia di Giulia (Usa, 1977), diretto da Fred Zinnemann e tratto dal romanzo Pentimento (A book of portraits), scritto nel 1973 da Lilian Hellman. Là sono Jane Fonda e Vanessa Redgrave che danno vita alle due amiche che crescono insieme durante la Seconda guerra mondiale e l’avvento del nazismo, che causerà la loro tragica separazione.

Non siamo sicurissimi che la scrittrice statunitense abbia davvero conosciuto un’amica uccisa a causa della Resistenza antinazista, così come, forse, non siamo sicurissimi che l’io narrante sia esattamente quello di Antonia e che sia esistita una compagna Natalia, alla quale sarebbe appartenuto un destino che ha molto a che fare con la tragedia. 

Ma non importa, non importa davvero un fico secco. Come ricordava Gigi Proietti parlando del suo lavoro, alla domanda “E’ vero?”, la risposta giusta è “E’ vero che te l’ho raccontato”.

E la qualità del racconto e della scrittura di Antonia Spaliviero è tale da rendere il suo romanzo uno dei più belli – a parer mio imperdibile per chiunque avesse avuto la stessa età in quegli anni – usciti negli ultimi anni.

Perché Natalia è per lei, e per chi legge, figura coetanea di riferimento, alla quale molto si può chiedere e dalla quale molto si può imparare, senza tuttavia la mancanza, che forse è sofferta da troppi ragazzi e ragazze d’oggi, di figure di riferimento più adulte. Come il padre e il fratello maggiore della narratrice (e finalmente si rivede un padre che non trascura di ascoltare la figlia). Come il curato della parrocchia, “unico prete antifascista” (il quale, conoscendo lo spirito di quei tempi e molte storie simili, probabilmente oggi non sarà più prete da molto tempo, avrà messo su famiglia e si dedicherà al volontariato organizzato), che mette in organizzazione i primi gruppi con maschi e femmine insieme e consiglia libri che per non pochi di noi ebbero la stessa sorte (i due di Michel Quoist, Amare per i maschi e Donare per le femmine, e giustamente la protagonista narrante sottolinea la discrepanza dei titoli). Come la straordinaria professoressa di lettere, che abbandona D’Annunzio per proporre Kerouac e Burroughs e Ginsberg e Corso e i poeti americani che grazie all’antologia curata da Fernada Pivano e pubblicata da Feltrinelli tutti conoscemmo all’epoca. 

E poi, con naturale scelta che è insieme rigorosa documentazione storica, il cinema e la musica che si vedevano e si ascoltavano a quei tempi, la scoperta della politica e la scoperta del sesso, descritta con una delicatezza e una sensibilità rare.

E, infine, senza dir troppo, perché il romanzo di Antonia Spaliviero va preso e letto e riletto e ascoltato, ci sono i morti, che vengono a trovare chi racconta, ormai divenuta adulta, ogni tardo pomeriggio dei suoi giorni.

Di morte e morti che non se ne vanno racconta anche il documentario – in questo caso che le cose raccontate siano accadute è comprovato – di Max Lowe.

Suo padre Alex, nato nel 1958, era una leggenda. Aveva aperto prime vie di scalata sulle cime più impervie degli Stati Uniti, delle Alpi, del Nepal. Eccelleva in ogni aspetto dell’alpinismo, dall’arrampicata su roccia a quella su ghiaccio a discese con gli sci che sembravano a tutti impossibili. Era stato anche protagonista, nel 1995, del salvataggio, prima raggiungendoli in scalata e poi portandoli a spalle, di un gruppo di alpinisti spagnoli che erano rimasti bloccati sul monte Denali, in Alaska.

Quando viene travolto, con David Bridges, dalla valanga che li ucciderà, insieme a loro stava salendo Conrad Anker, suo grande amico e anche altrettanto grande rivale sportivo. Conrad sopravvive. Jennifer, la moglie di Alex, è rimasta con tre figli, ancora piccoli. Con lo scorrere dei mesi tra i due, il sopravvissuto che si sente in colpa per esser tale e la vedova del suo miglior amico, nasce e cresce un amore che li porterà a sposarsi durante un viaggio in Italia. Il più grande dei figli, Max, non accetta di buon grado la scelta della madre e il suo rapporto col ‘patrigno’ non è privo di momenti difficili e di conflitto. 

Si arriverà comunque, divenuti adulti i tre ragazzi, alla decisione di girare un documentario sul padre. Che non è, tuttavia, solo questo. E’ anche un film che scava nelle persone che sono rimaste. E’ una meditazione sulla vita come avrebbe potuto essere, su quello che è stata e su come chi resta deve tenere un piede nel passato per render onore e memoria a chi se ne è andato e uno nel futuro perché non si interrompe ciò che è necessario costruire.

Ed è, quando nel 2016 un’altra spedizione scoprirà i corpi, ancora preservati dal ghiaccio, dei due alpinisti morti, anche il racconto di come sia necessario riconciliarsi con il ricordo che sta sfumando, recuperando una presenza fisica, se pur immota, e di come questo processo aiuti a riconciliarsi con se stessi e con gli altri.

E anche qui, curiosamente, mi torna in mente un film di Fred Zinnemann, Cinque giorni un’estate (Five Days One Summer. Usa, 1982), tratto da un racconto di Kay Boyle, nel quale, ambientandola nel 1932, si racconta la storia d’amore tra il medico Douglas (Sean Connery) e la giovane Kate (Betsy Brantley), nella quale avrà una parte importante l’episodio del ritrovamento del corpo di un valligiano scomparso in montagna quarant’anni prima, alla vigilia delle sue nozze, al quale assisterà quella che era la sua promessa sposa.

Compassione e commozione, al più alto grado di intensità emotiva, sono gli elementi che si trovano sia nel romanzo di Antonia Spaliviero (e anche nelle tre intensissime pagine in appendice nelle quali Gabriele Vacis racconta come si sia arrivati alla sua pubblicazione) che nel film di Max Lowe.

Nulla di artificiale né tantomeno di costruito per toccare con banalità o luoghi comuni narrativi la superficie del nostro essere.

Due modi di parlarci di persone che non ci sono più e della memoria che è loro dovuta, che lasciano un segno profondo.