di Carlo RIDOLFI
Stefano Fassina, economista, già deputato e viceministro, ha scritto un libro importante. Ha anche accettato, con grande disponibilità e cortesia, di puntualizzare alcuni concetti dopo le considerazioni proposte nella recensione ha accettato. Il dialogo e il confronto sono sempre gli strumenti migliori per poter crescere insieme.

Un tempo si sarebbe detto che questo è un libro che apre un dibattito. Al tempo nostro, oscuro e confuso q.b., il dibattito sembra costretto in una logica binaria (0/1; amico/nemico; oppure rosso/nero, come nella recente campagna elettorale del PD) che mortifica analisi, ragionamenti, approfondimenti e indagini nella complessità.
Che sono, per fortuna, presenti in tutte le pagine del volume scritto da Stefano Fassina (Economista e deputato della Repubblica, già responsabile Economia e Lavoro nel PD guidato da Pierluigi Bersani e poi viceministro dell’Economia e delle finanze nel governo Letta). A partire dal titolo, dove risaltano, a mio parere, la parola mestiere (essere di e fare la sinistra sono un mestiere e non una professione, né nell’antica accezione che individuava figure di rivoluzionari a tempo pieno, né in quella più recente e purtroppo assai diffusa di lavoro redditizio per i singoli, ma con quel carattere di artigianato e di arte ben richiamato da Mario Tronti nel commento che chiude il volume). E, anche, la parola ritorno, perché la politica della sinistra – diciamo dal 1989, per individuare una possibile periodizzazione – ha dismesso i suoi caratteri di azione per trasformare il mondo, limitandosi alla fredda gestione amministrativa di un esistente sempre più lontano dai suoi motivi di esistenza originari. (Con tutto il rispetto per le persone – e forse un po’ meno per le scelte concrete compiute – difficile, davvero tanto, scaldare gli animi e i cuori con il loden di Mario Monti o l’aplomb da banchiere di Mario Draghi).
Stefano Fassina ci propone otto “memo”, otto promemoria, appunti e spunti di riflessione, per tornare a identificare i connotati distintivi della Sinistra (scritto con la “s” maiuscola), purtroppo “dimenticati o ignorati”, e per riconoscere “un disegno, una visione, un neo-umanesimo laburista ed ecologista”.
I primi tre sono dedicati al lavoro che, su questo Fassina ha ragione in pieno, avrebbe dovuto essere la bussola sicura che indicava la direzione da seguire e che, invece e con effetti devastanti che sono sotto gli occhi di chiunque voglia vederli, è stata colpevolmente gettata via in un’enfasi di ‘modernità’ che ha fatto buttare acqua sporca, bambino, panni e mastello tutti insieme e senza distinguere ciò che non era più adeguato e utile con ciò che rappresentava radicamento e identità.
Risultato, assai poco lusinghiero e consolante, “siamo l’unico Stato dell’Unione Europea dove si è registrata, in trent’anni, una riduzione delle retribuzioni in termini reali” (pag. 23) e “il ministero del Lavoro indica che intorno al 25% delle lavoratrici e dei lavoratori del settore privato hanno un reddito al di sotto della soglia di povertà” (id.). Se a questi indicatori si aggiunge il fatto, purtroppo evidentissimo, di un “sostanziale blocco della mobilità sociale (…): i figli ereditano la condizione sociale dei padri” (pag. 24) risulta l’immagine di un’Italia che rischia di mettere alle sue porte d’entrata lo stesso cartello che sta a Civita di Bagnoregio, splendido ma precario borgo in provincia di Viterbo, che fu anche set per alcune sequenze de La strada di Fellini, sempre più minacciato dall’erosione, al punto da accogliere i visitatori con la scritta: “Benvenuti nella città che muore”.
Analisi impeccabile, quella di Stefano Fassina, che arriva tuttavia ad una conclusione che mi permetto di porre in discussione. Quando scrive: “il punto politico cardinale per la Sinistra è migliorare le condizioni materiali di vita delle persone in difficoltà e rispondere al loro smarrimento identitario” (pag. 28) a me sembra – lo pongo come punto critico da approfondire e sul quale confrontarci – che ci sia ancora un legame troppo stretto con una visione troppo economicistica e strutturale, a causa della quale la sinistra storica ha spesso perso di vista le reali condizioni storiche. Cerco di spiegarmi: le “condizioni materiali di vita”, cioè la struttura, non sono mai (su questo persino Marx non era riuscito ad andare più in là di qualche generica intuizione) slegate dalla questione dell’identità (cioè la sovrastruttura). Struttura e sovrastruttura non sono separate, ma distinte. E io posso considerare che la mia gamba è altra cosa dal mio braccio o dalla mia testa, ma se la separo non sono più in equilibrio. L’identità è ambiente complesso e multidimensionale: comprende le origini di genere, di etnia, di provenienza geografica e di nazione, di ambiente sociale, di lingua, di livello culturale, di religione, di orientamento sessuale etc.
In questo senso (ma è, sia chiaro, non un rilievo alla competenza di Stefano Fassina, ma un richiamo a tutti noi per uno sguardo più ampio) credo sia necessario il riferimento a diversi ambiti disciplinari, per l’analisi della realtà, senza gerarchizzarli e senza trascurarne alcuni a beneficio di altri. L’economia, certo, ma anche la sociologia, l’antropologia culturale, la storia, la linguistica, la psicologia etc. (Marx, di sicuro, ma anche Weber, Lévi-Strauss, Teilhard de Chardin, Chomsky, Bloch e Braudel, Karen Horney, per fare solo alcuni dei moltissimi esempi possibili).
Dopo il primo “memo” (“La sinistra senza la bussola del lavoro”), il secondo (“Il lavoro prima di tutto”) riprende – verrebbe da dire: finalmente! – due princìpi che avrebbero dovuto essere fondamentali per la sinistra storica e che invece sono stati abbandonati o per ignavia o per colpevole compromissione con l’avversario storico. Scrive Fassina: “La Sinistra deve ambire alla piena e buona occupazione, al Lavoro di Cittadinanza, innanzitutto attraverso la redistribuzione dei tempi di lavoro”.
Cosa è accaduto, invece, in questi ultimi trent’anni? E’ accaduto che, avendo smarrito la nozione di impegno collettivo (e avendo demonizzato, come spesso ricorda lo stesso Stefano Fassina, anche quella di conflitto), si è lasciata la dinamica sociale in balìa del princìpio contrario. Tutto è divenuto azione e interesse individuale, slegati dal legame sociale. Così si è invocata per decenni la flessibilità (come già detto: in tutto meno che nelle retribuzioni, che sono rimaste rigide e quasi immobili) e si è detto agli uomini e alle donne che, in caso di difficoltà, la parola magica era resilienza, cioè la capacità individuale di assorbire colpi senza essere spezzati definitivamente e, di fatto, di adattarsi senza rivendicazioni alle condizioni di sfruttamento, in attesa (anche questo viene opportunamente ribadito nelle pagine del libro) dello sgocciolamento di qualche residuo di ricchezza verso le parti più deboli della società.
Com’è stato possibile, mi chiedo, che due battaglie come il Reddito di cittadinanza e le pensioni siano state lasciate in mano l’uno ai CinqueStelle e l’altra addirittura alla Lega? Imprigionati nella logica delle compatibilità, dai vincoli europei alla cosiddetta “Agenda Draghi”, i partiti che si autodenominavano di sinistra hanno dato la stura e, a volte, sono stati persino promotori diretti a provvedimenti che, dalle leggi Treu allo sciaguratissimo Jobs Act, hanno favorito e incrementato situazioni di precariato, di sottosalario, di incertezza.
Lavorare ponendosi come orientamento la piena occupazione, anche attraverso la riduzione degli orari di lavoro, e una conclusione della vita lavorativa che tenga conto delle condizioni reali dei diversi tipi di lavoro (ho visto uomini giovani e grandi e grossi svenire per il caldo di una fonderia; come possiamo pensare di chiedere loro di lavorare in quelle condizioni fino a 67 anni, per giunta attendendo che continuino a votare partiti che hanno scelto di lasciarli lì?) dovrebbero essere due pilastri fondamentali per la costruzione di una moderna sinistra laburista.
Il terzo “memo” (“Il libero mercato svaluta il lavoro e acuisce le diseguaglianze”) conclude la prima parte dedicata alla questione laburista, allargandone la visione a dimensioni antropologiche e istituzionali, sulle quali mi permetto un altro paio di considerazioni critiche.
Stefano Fassina propone qui una discussione, secondo me del tutto opportuna e non viziata da pregiudizi, su questioni cruciali come quelle prese in esame dal cosiddetto “disegno di legge Zan” o, altro esempio non aggirare, sul confronto in merito alla “maternità surrogata” da lui avuto nel 2016 con Bia Sarasini. Dice anche, e su questo concordo in pieno, che su questi temi non sia possibile né giusto rinunciare al confronto con le posizioni e le sensibilità del mondo cattolico. Ma a me pare – senza certezze definitive, ché stiamo parlando di un terreno delicatissimo e che tocca ambiti profondissimi degli esseri umani – che ci sia una insufficienza di base (non imputabile all’autore, ma a una più generale abitudine generalizzante). Intendo dire che, secondo me, su questi temi non siano possibili prese di posizione che non abbiano – prima, sia in senso logico che cronologico – interpellato a fondo chi (donne, gay, trans etc.) vive sul proprio corpo (inteso come integralità dell’esperienza) situazioni e scelte che non poche volte passano attraverso percorsi di sofferenza e di dramma. Non sono cioè possibili assolutizzazioni giuridiche in astratto, senza che si sia ascoltata – non con sufficienza (che non ha Stefano Fassina) e paternalismo, ma con attenzione vera – la voce dei soggetti vivi, reali e concreti.
La seconda questione che mi pare critica nell’esposizione proposta da Fassina – che si trova in questo capitolo e che informa di sé molti di quelli successivi – è quella dello Stato.
E’ assolutamente vero, cioè, che se la Sinistra non ritorna a pensare allo Stato (anche quello nazionale, e in questo senso sono davvero illuminanti e per qualche verso sorprendenti, ma con una sorpresa che apre al nuovo, le considerazioni certamente non scontate o date per acquisite che Stefano Fassina fa in riferimento all’Europa e alle necessarie dinamiche con la storia degli Stati membri) come alla condizione irrinunciabile di garanzia e di protezione di chi lo abita, sbaglierebbe clamorosamente direzione.
In questo senso il secondo drammatico errore, dopo quelli sul lavoro già citati, compiuto in questi tre decenni è stato la modifica al titolo V della Costituzione, che ha aperto la strada, in modo non si sa se irresponsabile o connivente, alla rivendicazioni delle Regioni del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna), che potrebbe portare ad una Autonomia Differenziata che, come Fassina argomenta in modo ineccepibile, ci orienterebbe verso una rottura dell’unità nazionale che avrebbe effetti davvero drammatici. (Non solo per le regioni del Sud, storicamente più “deboli”, ma anche per quelle che si ritengono più “forti” e che su ambiti quali la sanità e la scuola potrebbero far disastri in termini di privatizzazione e definizione dei criteri di assunzione degli insegnanti e dei programmi di studio).
Resta tuttavia il dubbio (Fassina conosce senza dubbio il grande e purtroppo spesso inascoltato lavoro fatto a partire dal 1972 dal Centro per la Riforma dello Stato) che ci sia ancora una insufficiente considerazione delle condizioni in cui si trova lo Stato italiano, nei suoi apparati amministrativi, nelle sue insufficienze organizzative e burocratiche, se non persino nelle sue contiguità con ambienti criminali. La pongo come questione da approfondire, su una pista di lavoro che dovrebbe aiutarci a elaborare concrete proposte di riforma.
Il breve, ma densissimo, “memo #8” riassume nel titolo e nella trattazione quello che Stefano Fassina sembra proporre come programma per un ritorno alla Politica.
“Neo-umanesimo laburista e ambientalista”, senza che diventi per forza il nome di un nuovo partito, mi pare essere indicazione per piste di discussione e di lavoro davvero interessanti e appassionanti.
Discussione e lavoro che dovrebbero coinvolgere, non con consultazioni occasionali ed effimere, ma con punti di elaborazione di cultura sociale veri, continui, considerati e ascoltati, donne e uomini che siano di esperienza politica o neofiti, del sindacato, del Terzo Settore, di diversa appartenenza religiosa e così via.
“Servirebbe” – scrive Fassina – “un finale alternativo nei film di Ken Loach” (pag. 116).
Sono pienamente d’accordo. Anzi, indicherei già una possibilità. Vero è che in molte pagine di questo libro importante e da leggere e far leggere vengono in mente, per la profondità e la precisione di molte analisi, molti film del grande regista britannico (per fare un solo esempio, quando Fassina parla delle condizioni di lavoro dei drivers non possono non riecheggiare le immagini e i dialoghi di un film drammatico e pure illuminante come Sorry, We Missed You, 2019). Ma Ken Loach ha realizzato anche un film documentario, forse un po’ meno conosciuto, The Spirit of ’45 (2013), nel quale ricostruisce come, dopo la devastazione della Seconda guerra mondiale, i governi laburisti seppero dar orientamento alla ricostruzione non solo economica, ma anche sociale e civile, mobilitando le migliori energie della solidarietà, della cooperazione, del legame sociale.
Senza nostalgie passivizzanti o sguardi all’indietro su improbabili bei-tempi-che-furono – perché, come dice Francesco De Gregori: “La storia non ha nascondigli, la storia non passa la mano” – dovremmo, tutte e tutti, e in questo senso il libro di Stefano Fassina ci potrebbe davvero dare una grande mano, ritrovare uno spirito che abbiamo smarrito per pigrizia, ignavia, compromissione o vigliaccheria.
Non dopodomani né domani, perché il futuro non è garantito per grazia divina, soprattutto in un’epoca nella quale la minaccia nucleare, che speravamo espunta dalla logica umana dopo Hiroshima e Nagasaki, torna a farsi ipotesi contemplabile dai potenti della Terra.
Oggi. Qui e ora. Insieme.
Carlo Ridolfi
Note in risposta.

di Stefano FASSINA
Ringrazio Carlo Ridolfi per l’attenzione dedicata al mio testo. Lo ringrazio in particolare per i rilievi critici, i più interessanti, perché come lui rileva il libro del sottoscritto ha come obiettivo aprire un dibattito sul mestiere della Sinistra, non proporre un ricettario. Il suo primo rilievo investe la vexata questio della relazione tra struttura e sovrastruttura. In particolare, in uno dei miei “memo”, la critica investe il seguente passaggio: “il punto politico cardinale per la Sinistra è migliorare le condizioni materiali di vita delle persone in difficoltà e rispondere al loro smarrimento identitario” (pag. 28). Ridolfi rileva che: “le condizioni materiali di vita, cioè la struttura, non sono mai (su questo persino Marx non era riuscito ad andare più in là di qualche generica intuizione) slegate dalla questione dell’identità (cioè la sovrastruttura). Struttura e sovrastruttura non sono separate”. Sono d’accordo, completamente. La “e” in mezzo tra “migliorare le condizioni materiali di vita delle persone in difficoltà” e “rispondere al loro smarrimento identitario” è intesa come endiadi, non come congiunzione. Quindi, sottintende un legame tra condizioni distinte, ma non separate. Sarei dovuto essere più chiaro, anche perché considero il punto di primaria rilevanza. Nessuna separazione tra struttura e sovrastruttura, ma un’interazione complessa in un contesto multidimensionale, come sottolinea Ridolfi. Il dato politico che intendevo richiamare è il disinteresse maturato dalla Sinistra non soltanto per le condizioni materiali di vita delle persone ma anche, anzi soprattutto, per il loro smarrimento identitario aggravato dalle loro condizioni materiali di vita. Per smarrimento identitario intendo: la perdita delle coordinate per trovare riconoscimento nella propria comunità; l’incomprensione delle valutazioni sociali criminalizzanti il proprio arroccamento “difensivo”; la caduta di fiducia nel “proprio” mondo alla luce degli standard imposti per il “successo”; la sensazione di vuoto di senso al raggiungimento di obiettivi consumistici imprescindibili; il raffreddamento emozionale causato dal sistematico occultamento commerciale del sacro. In sintesi, la “disperazione escatologica”, nelle parole di Matteo Zuppi (Avvenire, 14/08/22). Un circolo vizioso nella persona degradata a “consumatore”.
Anche il secondo rilievo di Ridolfi centra un nodo decisivo per consentire alla Sinistra di fare il suo mestiere: le “capacità” dello Stato, definito qui come amministrazioni pubbliche. Siamo messi male, senza alcun dubbio. C’è voluta prima la pandemia e poi il PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, per costringere il “senso comune” (da destra e sedicente sinistra) “contro la burocrazia” ed i fautori delle politiche liberiste “starve the beast” (far morire di fame la bestia, ossia lo Stato), a riconoscere che le pubbliche amministrazioni italiane, negli ultimi 30 anni di tagli alla “spesa improduttiva”, sono state spogliate di competenze professionali, sia in termini qualitativi che quantitativi. Abbiamo, tra gli Stati dell’Eurozona, ma anche in confronto al Regno Unito, di gran lunga il più basso numero di dipendenti pubblici in rapporto agli abitanti e l’età media più alta. Anzi, le pubbliche amministrazioni, attraverso le “esternalizzazioni” di servizi essenziali sono diventate la principale macchina di precarizzazione e impoverimento del lavoro. È necessario un programma pluriennale di riqualificazione e ricostruzione delle capacità amministrative a tutti i livelli, in aggiunta ad insegnanti, personale medico, operatori della Giustizia, a cominciare dalle amministrazioni comunali: soltanto attraverso pubbliche amministrazioni di eccellenza si possono attuare politiche pubbliche efficaci. Il programma dovrebbe iscriversi in un quadro istituzionale ridefinito e corretto, innanzitutto sul versante costituzionale, per eliminare lo scempio compiuto nel 2001 all’inseguimento elettorale della Lega Nord con le norme di “regionalizzazione” dello Stato e l’apertura di destabilizzanti spazi all’autonomia differenziata.
Mi fermo qui. Grazie ancora a Carlo Ridolfi per le interessanti sollecitazioni.
Stefano Fassina