Oltre Babele

Due esempi dagli Oscar 2022.

Per una di quelle curiose coincidenze che costellano la storia dei premi Oscar o, forse, per un disegno ben architettato dai componenti dell’Academy, entrambi i film che hanno vinto la statuetta per miglior film e miglior film straniero – Coda I segni del cuore[1] e Drive My Car[2] – hanno a che fare con l’afasia e con il suo superamento attraverso la lingua dei segni.

Il primo è un buon film, rifacimento di un precedente originale francese, che diventa ottimo nella seconda parte. Il secondo è un bellissimo film, dall’inizio alla fine.

In I segni del cuore si racconta di una famiglia di pescatori nel Massachussets, nella quale tre componenti (padre padre e primogenito) sono sordi e la figlia minore è dotata di parola. Appassionata di musica, parteciperà alle selezioni per entrare in un prestigioso college specializzato di Boston. 

Ma non si tratta dell’ennesima storia prevedibile di aspirazioni all’inizio frustrate e che poi trovano il modo di affermarsi, ma di una riflessione molto dettagliata della distanza che una differenza fisica crea tra le persone e dai modi possibili per ridurla e superarla.

Tutti gli attori sono bravissimi (Troy Kotsur, che interpreta il padre, ha vinto l’Oscar come miglior attore non protagonista), ma merita una citazione particolare Emilia Jones, che nella parte della protagonista ci regala una emozionante interpretazione di un capolavoro come Both Sides Now di Joni Mitchell. 

Drive My Car, film imperdibile, tratta il tema della comunicazione tra esseri umani su molti livelli diversi.

Il protagonista è il sig. Kafuku, un regista e attore teatrale. La moglie una sceneggiatrice televisiva. Entrambi hanno subìto il gravissimo lutto della perdita di una figlia all’età di quattro anni.

Quando la loro storia si interromperà drammaticamente, Kafuku si trasferirà a Hiroshima, per mettere in scena una versione multilinguaggi (giapponese, mandarino, coreano, inglese e Lingua dei Segni) di Zio Vanja di Cechov. In questa esperienza sarà accompagnato dalla giovane Misaki (che avrebbe l’età di sua figlia se fosse viva), assunta come guidatrice della Saab 900 Turbo rossa del 1987 che Kafuku possiede e tratta con la cura dell’appassionato.

Sia in I segni del cuore che in Drive My Car c’è un momento nel quale il sonoro si ferma e personaggi e spettatori stanno per qualche secondo in un silenzio artificiale ma denso di significati. Nel film americano avviene con una preziosa intuizione di sceneggiatura, che affida soprattutto ai volti dei genitori sordi il compito di attribuire significato a ciò che sta accadendo. Nel film giapponese accade verso la fine, quando il regista e la sua autista arrivano al villaggio di origine della ragazza, immerso nella neve, per ritrovare il luogo in cui la sua casa fu travolta da una frana, nella quale aveva trovato la morte sua madre.

Macerie e ricostruzione, disperazione e conforto, un passato che rischia di trascinare in un gorgo senza fine e l’appiglio salvifico di riuscire a vivere il presente. Soprattutto nel film di Ryusuke Hamaguchi, in coerenza fondamentale con la cultura nipponica, non c’è frase e tantomeno oggetto che non siano pregni di significato. Persino i mozziconi di sigaretta (senza nostalgie per il tabagismo, ma finalmente un film che tra le altre cose esce dall’esasperazione del politicamente corretto che in questi anni vuole che a fumare siano sempre e solo i cattivi) possono diventare un piccolo altare per le persone scomparse.

Pochissima enfasi tecnologica, in entrambi i film. Anzi: se c’è da ascoltare musica si usano i dischi in vinile. Non si parla mai (per fortuna) di social. La barca e la casa della famiglia di pescatori sono  quanto di più rustico e artigianale possibile. Gli strumenti musicali sono chitarra e pianoforte a coda. Il teatro del regista giapponese, sia nella fase delle prove che in quella della messa in scena, ha come massimo artifizio tecnologico lo schermo sul quale scorrono le battute del testo nelle varie lingue e nei vari caratteri dei linguaggi che vengono usati.

E in entrambi i film la scena finale, prima del congedo per personaggi e pubblico, è affidata alla Lingua dei Segni. 

Soprattutto – senza cadere nell’esterofilia, ma valga come considerazione e auspicio – sia nel buon film medio americano che nello splendido film giapponese le vicende personali sono inserite in un più ampio contesto storico e sociale e non rimangono nel ristretto ambito di quel compiaciuto autobiografismo nel quale spesso troppo cinema italiano di questi tempi pare cadere.

Andare oltre Babele, paiono dirci questi due esempi cinematografici, dovrebbe essere sempre lo scopo di chiunque si accinga a tentar di costruire un’opera d’arte universale. 


[1] I SEGNI DEL CUORE (CODA) Usa/Francia/Canada, 2021 regìa: Sian Heder sceneggiatura: Sian Heder (dal film francese del 2014 La famiglia Bélier) fotografia: Paula Hidobro montaggio: Geraud Brisson musica: Marius de Vries scenografia: Diane Lederman costumi: Brenda Abbadandolo produzione: Vendome Pictures, Pathé Films distribuzione: Eagle Pictures con: Emilia Jones (Ruby Rossi), Tory Kotsur (Frank Rossi), Marlee Matlin (Jackie Rossi), Daniel Durant (Leo Rossi), Eugenio Derbes (Bernardo Villalobos), Kevin Chapmam (Brady), Amy Forsyth (Gertie) colore durata: 111’

[2] DRIVE MY CAR (DORAIBU MAI KA) Giappone, 2021 regìa: Ryusuke Hamaguchi soggetto: Haruki Murakami sceneggiatura: Takamasa Oe, Ryusuke Hamaguchi fotografia: Hidetoshi Shinomiya montaggio: Azusa Yamazaki scenografia: Mami Kagamoto costumi: Haruki Koketsu musica: Eiko Ishibashi produzione: C&I Entertainment, Culture Entertainment, Bitters End distribuzione: CG Entertainment, Tucker Film, Far East Film Festival con: Hidetoshi Nisijima (Yusuke Kafuku), Reika Kirishima (Oto), Tokp Miura (Misaki Watari), Masaki Okada (Koji Takatsuki) colore durata: 179’

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