Due riflessioni in tempo di guerre fuori e dentro le nostre mura.

Prima
ἐλπίς
Nel VII secolo a.C., il poeta greco Esiodo, ne Le opere e i giorni, raccontava di come gli dèi, arrabbiati perché Prometeo aveva carpito loro il segreto del fuoco per donarlo agli uomini, mandassero sulla Terra la prima donna mortale, Pandora, resa bellissima da Afrodite, provetta nelle arti manuali grazie agli insegnamenti di Era e nella musica insegnatale da Apollo e posta in vita da Atena. Pandora (“tutti i doni”), portava con sé un vaso, datole in consegna da Zeus con la prescrizione di non aprirlo.
Ma, dato che Ermes aveva infuso in lei il carattere della curiosità, Pandora non resistette. Aprì il vaso, ne uscirono gli spiriti maligni della vecchiaia, della gelosia, della malattia, della pazzia e del vizio, che sciamarono a portar disgrazia su tutta la Terra.
Pandora riuscì a chiudere il vaso, conservando sul fondo di esso soltanto ἐλπίς, la speranza.
Abbiamo pensato spesso, in queste settimane, alle radici antiche del nostro essere, individuale e sociale.
Sia perché la realtà della guerra – con tutto il suo portato di distruzione, di morte, di povertà e, anche, di tremenda semplificazione del pensiero, che tende a ridurre la complessità in uno schema binario buoni/cattivi, amici/nemici – si è rifatta drammaticamente evidente.
Sia perché tutte e tutti noi siamo stati travolti dalla scelta di Massimo.
Ha ancora senso, ci siamo chiest* e ci chiediamo, confidare nell’unico elemento rimasto dentro il vaso di Pandora?
E, declinando ulteriormente il concetto: ha ancora senso accompagnare ad essa – la speranza – la parola e la pratica del progetto, del gettare-avanti, del pro-jacere in vista di una costruzione alternativa alla realtà fattuale, quando in questi giorni abbiamo davanti – con dolore, angoscia, tristezza e desolazione – solamente lo jacere, l’essere distesi, immobili, fermi?
Queste sono LE domande.
Alle quali non sappiamo dare, in questo momento, una risposta chiara, definitiva e risolutiva.
Alternativa alla realtà fattuale è la realtà virtuale, quella che, forse, ha suggerito al giovane russo che l’ha postata sui social la frase: “Non voglio il Donbass, ridatemi Netflix”.
Come ha scritto Walter Siti in un breve ma interessantissimo pezzo apparso su Domani[1]:

“…negli ultimi cinquant’anni l’Occidente ha messo a punto una mutazione tecnologica che investe la vita quotidiana dei cittadini in una misura inconcepibile prima: la post-realtà spettacolare ha preso possesso delle menti diventando parametro di libertà e benessere.
(…)
Le multinazionali dell’intrattenimento si sono ramificate ovunque e hanno cambiato l’idea che gli individui si fanno di sé.
(…)
L’Occidente ha rimosso come in sogno la miseria e la morte rifiutandosi di vederle proprio quando con le pandemie e le disuguaglianze crescevano nella realtà; quanto siamo diventati timidi di fronte all’idea di morire materialmente per un ideale o anche soltanto di peggiorare il nostro tenore di vita e basterà il pericolo a svegliarci?
(…)
Che la scelta sia allora soltanto tra irrealtà e repressione?”.
Ripetiamo: non abbiamoo risposte, se non abbozzate, precarie, fragili.
Ciò che dobbiamo chiederci -e dobbiamo chiedercelo insieme, con riflessioni lunghe lente e approfondite – è se ci sia ancora e quale sia il senso di un agire organizzativo fondato sui progetti per un contributo alla trasformazione orientata al bene comune della realtà.
Ci pare evidente – è un pensiero che ho da molto tempo, prima di pandemie guerre e scelte individuali come quella di Massimo – che rimanere nella illusione di poter operare trasformazioni concrete solo operando sul piano del culturale e del simbolico è deleterio e auto ingannevole.
Nessuna bellezza salverà il mondo, perché se all’estetica non si accompagna l’etica, se alla conoscenza non si accompagna il discrimine tra il bene e il male, rischiamo di rimanere dei pericolosi ignavi.
Seconda
Nité
Ci sono giorni nei quali ci sentiamo, tutte e tutti, come piante che abbiano perso o indebolito gravemente le radici e per questo a rischio di scarsa tenuta, se non di vera e propria frana.
Quando chiesero a Vittorio De Sica, a proposito del suo capolavoro Ladri di biciclette il perché di un film di quel tipo, il grande regista rispose: “Abbiamo provato a rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane, il meraviglioso nella piccola cronaca“.

Forse è giunto il momento di smettere di parlare a vanvera di un futuro più o meno remoto e darci concentrazione sul presente, sui qui-e-ora, sui mille anfratti nascosti e pure fondamentali che stanno tra le mirabolanti dichiarazioni di principio e la più retriva attenzione alle cose, al possesso, al controllo.
Dovremmo essere in grado, prima di tutto, ad aiutare noi stessi, nei nostri momenti di fragilità e incertezza, per poter provare ad aiutare un poco anche gli altri.
Abitando le terre e i giorni nei quali ci è stato dato in sorte di vivere, senza smettere di immaginarne altre e altri, ma nemmeno senza considerare quanta ricchezza umana ci sia là dove ci capita di vivere e di incrociare altri e altre.
Ci convince sempre meno il pacifismo da cortile, che si illude e si compiace di qualche canto appassionato, di qualche disegno infantile ispirato da adulti, di qualche applauso dai balconi in accoglienza di bambine e bambini che arrivino da zone di guerra.
Abbiamo a volte l’impressione che mentre ‘guerra’ sia, purtroppo, parola drammaticamente incarnata in distruzione ferite e morte in molte zone del mondo, ‘pace’ rimanga per troppi di noi una superficiale formula autoconsolatoria.
Ci ha molto colpito, delle cose che stiamo leggendo in questi giorni, una lunga intervista al filosofo senegalese Souleymane Bachir Diagne, direttore dell’Institute for African Studies alla Columbia University di New York[2].

In un passo dell’intervista Diagne dice:
“Filosofare nelle lingue africane, ovvero mobilitare queste lingue in quanto strumenti della creazione e della concettualizzazione filosofica, è un compito cruciale.
E’ per questa via che la parola ubuntu, di lingua bantu, grazie all’opera di Nelson Mandela e Desmond Tutu, è diventata un concetto filosofico importante, ben oltre i confini del Sudafrica.
Ubuntu indica un legame di reciprocità e, in senso più propriamente filosofico, designa quel legame di reciprocità a partire dal quale si costituisce l’umanità.
Io ho riflettuto a lungo su un concetto di lingua wolof che ha molte risonanze con il concetto di ubuntu.
Mi riferisco al concetto di nité, che allude al divenire umano nella relazione e nella reciprocità.
Nit nitay garabam (l’uomo è il rimedio dell’uomo) è un proverbio wolof che viene evocato spesso nella vita di tutti i giorni.
(…)
Io credo sia possibile risignificare l’universale proprio a partire dal paradigma della traduzione.
Alla maledizione di Babele, alla proliferazione di tante lingue diverse, l’umanità ha reagito con la traduzione. Possiamo tradurre e tradurci. Ci saranno sempre incomprensioni e forse anche ostacoli intraducibili, ma la traduzione istituisce una relazione orizzontale e plurale in cui non c’è un unico logos, un’unica lingua della ragione universale, bensì tante lingue in cui tutti possiamo filosofare e tradurci.
(…)
Ecco, la traduzione ci serve per pensare un universale comune. Questo non significa che vada tutto liscio: la traduzione è negoziazione, ma anche conflitto e rapporti di forza.
(…)
Io penso che l’universale ci serva per segnalare l’orizzonte comune del nostro vivere insieme, per non arrenderci al relativismo dei tanti punti di vista indifferenti, all’individualismo dei tanti interessi giustapposti. L’universale ci riporta, senza alcun essenzialismo, al nostro essere umani, ad una condizione condivisa”.
Tradurre il pensiero in parola e poi in atto concreto, anche piccolo, silenzioso, mai ostentato. E poi, dall’atto concreto che produce relazione, dare nuovo significato alla parola e nuovo senso al pensiero.
Abbiamo deciso di continuare a provarci, non da sole e da soli, ma con l’indispensabile aiuto di chiunque voglia aggiungersi, anche solo per un breve tratto, a questo cammino.

[1] Walter Siti: Meglio Netflix che il Donbass: il dilemma residuo tra irrealtà e repressione. Domani. 10 marzo 2022
[2] (a cura di) Javila Mascat. Souleymane Bachir Diagne. Nel mondo della filosofia africana. Il Manifesto. 18 marzo 2022