Il maestro della pedagogia a piedi scalzi.

Carlo Dal Lago (1950-2014, Bergamo) è stato maestro elementare, scrittore di fiabe e filastrocche per bambini, creatore e coordinatore di servizi per l’infanzia e per la disabilità, organizzatore culturale e militante comunista.

Amava definire il suo metodo educativo TAT (acronimo dell’espressione dialettale bergamasca “Tat Al Toc”, per dire che si trattava di un metodo approssimativo e poco sistematico) oppure “pedagogia a piedi scalzi”:

“Pedagogia a piedi scalzi perchè mi ricordo che al tempo della Cina maoista avevo letto di questi medici a piedi scalzi che non erano proprio medici, avevano giusto un’infarinatura di medicina, che venivano mandati per le campagne cinesi come presidio sanitario.

La Cina non aveva medici abbastanza e nel tempo in cui ci si sarebbe impegnati a formare dei medici veri occorreva andare incontro alle emergenze ed alle esigenze quotidiane.

Ci si accontentava di questi medici a piedi scalzi che erano comunque un passo avanti rispetto a nessun medico.

Così ho fatto il maestro a piedi scalzi in attesa dei pedagogisti che non sono mai arrivati. A dir la verità sono anche arrivati ma non mi è sembrato potessero darmi molto di più di quanto mi avevano dato Don Milani, Mario Lodi, Celestin Freinet e Andrè Lapierre, per dirne alcuni.

O forse non sono stato attento.”

BAMBINI E POESIA

Diciamolo subito così ci togliamo il pensiero: non è che i bambini facciano poesia.

I bambini sono lì alle prese con il linguaggio, con la parola. Stanno cercando, e non lo fanno nemmeno consapevolmente, di impadronirsi delle parole perché sono le parole che ci fanno uomini, che ci permettono di rapportarci con il mondo come esseri umani.

Di fronte a questa montagna di parole che è il linguaggio loro si arrampicano, rotolano, scivolano, cadono e risalgono, provano e riprovano, giocano.

Forse è proprio “giocano” la parola che più si avvicina al loro atteggiamento.

Certo c’è anche un atteggiamento scientifico, vale a dire che man mano fanno esperimenti di uso delle parole, si avventurano su questa montagna dove intuiscono dei sentieri che magari dopo un po’ abbandonano perché non portano a nulla e in altri casi ripercorrono costantemente finché il sentiero, calpestato e ricalpestato, diventa più evidente, e man mano riescono a costruirsi una cartina, una mappa delle parole e delle strutture della lingua.

Ma anche questo atteggiamento scientifico non è in fondo che un gioco, vale a dire un’attività che non è finalizzata coscientemente all’apprendimento, non ha scopo che in sé stessa.

E questo è un elemento straordinariamente positivo perché gli permette di accettare sbagli ed errori senza cadere nella frustrazione che li porterebbe alla rinuncia dell’esperienza.

Possiamo dire che imparano la lingua perché gli serve e perché non ne devono rendere conto a nessuno.

Per motivi professionali sono a contatto con i bambini degli asili nido e mi vien da dire che i bambini imparano a parlare così come imparano a camminare, per prove e tentativi sotto la motivazione di raggiungere un oggetto, una persona.

Probabilmente la parola ha anche qualcosa in più. Ci permette di raggiungere una persona anche senza muoverci, ci permette di chiamarla, e ci permette di evocare un oggetto anche se non è presente. Ci costruisce il pensiero.

E costruendo il pensiero costruisce il mondo.

In questa prospettiva posso dire che i bambini non fanno poesia ma certamente anche che, proprio perché sono sperimentatori giocosi, possono costruire giocattoli linguistici inaspettati.

Non saprei nemmeno bene definire cosa è una poesia e cosa fa un poeta ma se dovessi provarci a farlo direi che il poeta scuote le parole, le agita, per riproporcele in una composizione inaspettata, in un’articolazione, in una struttura che era lì sotto i nostri occhi ma nascosta.

Riallinea le parole che tutti conosciamo in un modo che ci sorprende e che vanno a toccare parole che ci portiamo dentro e che sono un po’ addormentate.

E lo fa apposta.

Un po’ questo lo fanno anche i bambini.

Nei loro tentativi di impadronirsi e di dominare il linguaggio, e proprio perché questo dominio è ancora incerto, riescono a volte a vedere le parole in modo nuovo. 

L’inesperienza li aiuta.

Ricordo un bambino di tre anni che di fronte ad un salice piangente mi ha detto: – Guarda, una fontana d’albero.

Fosse stato più grande probabilmente mi avrebbe detto: – Guarda, quell’albero sembra una fontana.

E’ sempre la stessa idea ma quanto è più suggestiva la prima formulazione che mette in primo piano la fontana.

L’infanzia è anche un periodo in cui i bambini cercano di uniformarsi agli adulti perché questo è il modo di crescere ma siccome sono nuovi a questo mondo il loro sguardo non è ancora omologato, vedono alcuni aspetti che noi non vediamo.

In questo senso si avvicinano ai poeti.

Senza farlo apposta.

Tocca a noi che stiamo con loro, che lavoriamo con loro, essere attenti a quello che dicono, essere capaci di accogliere le loro espressioni senza ricondurle immediatamente a quella che pensiamo sia la visione corretta.

In questo senso se valorizziamo le loro metafore inconsapevoli, le ricomposizioni sballate, gli errori, li aiutiamo a costruirsi un dominio più vasto della parola e del pensiero.

Questo non ci esime dallo spiegargli le regole dell’ortografia e della grammatica ma ci permette di spiegargli che le regole sono costruzioni umane, che possono essere rinnovate o infrante, che possono portarci a regole nuove.

In una seconda elementare, o una terza non ricordo bene, stavo facendo costruire ai bambini un vocabolario. Loro sceglievano le parole e poi cercavano di darne una definizione.

Due bambine avevano scelto la parola “tuta” e la loro definizione era: ce la mettiamo a giocare.

Commettendo un errore piuttosto frequente, o forse in preda ad una pulsione inconscia del loro vissuto, quando mi portarono il biglietto la definizione era stata così formulata: tutta: ce la mettiamo a giocare.

Naturalmente ho fatto notare l’uso improprio della doppia t ma abbiamo concordato che anche questa formulazione aveva un significato e abbiamo messo così due definizioni sul vocabolario.

Insomma.

Il laboratorio di poesia non è lo spazio in cui i bambini imparano a scrivere poesie.

Può essere lo spazio in cui imparano a giocare con le parole, a sperimentare usi diversi delle parole, a divertirsi con le parole. 

Se, e sottolineo il se, da questi esperimenti esce qualcosa che ai nostri occhi di adulti sembra poesia tanto meglio. Ne avremo una gratificazione. 

Ma non è il risultato atteso.  Perché lo spirito soffia dove vuole e spesso si astiene anche dal soffiare. 

Quello che ci importa è il processo, in questo caso il gioco.

Di seguito bisogna anche dire che un laboratorio di un’ora e mezzo è davvero una piccola esperienza.

Può avere qualche significato se lo si considera solo come tale. Una piccola esperienza, un’occasione, uno stimolo a partire dal quale continuare il gioco. 

Quello che mi riprometto di fare è di portare la lingua come si porta un giocattolo. 

Vorrei provare a inventare per l’occasione alcuni marchingegni che dimostrino come le parole si possono agitare e scuotere per scoprire nuovi usi.

C’è un attrezzo, materialmente concreto, che si può tenere in mano, che serva a costruire una filastrocca?

C’è un cacciavite per smontare e rimontare le parole?

Esiste un divagatore di pensieri che strizzi le metafore in modo che ne esca un succo di frutta lirico?

C’è una macchinetta nella quale da una parte si infilano le parole e dall’altra si sfilano le poesie?

C’è un grattafantasia che, opportunamente sfregato tra i capelli, produce testi scintillanti?

Staremo a vedere.

Dopo di che agli insegnanti non ho molto da dire se non di seguire il proprio uzzolo personale e farlo giocare con l’uzzolo dei bambini.

Evitando di trasformare il gioco in esercizio perché detesto gli esercizi almeno quanto gli eserciti.

Mi piacerebbe che alla fine non ci fossero solo degli insegnanti che propongono attività di gioco sul linguaggio (per le quali a partire dalla Grammatica della Fantasia di Rodari e dai Draghi Locopei della Zamponi si è sviluppata una buona letteratura didattica) ma insegnanti pronti ad accogliere quelle divagazioni dai percorsi linguistici che nella routine quotidiana della scrittura in classe emergono senza cercarle.

Funghi di poesia, come li ha chiamati una signora disabile del gruppo con cui costruisco ogni mese un giornale.

Carlo Dal Lago

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