Obbedienza critica

L’obbedienza non è più una virtù, eppure don Milani la praticava con rigore. 

Nel suo libro Tutti i banchi sono uguali. La scuola e l’uguaglianza che non c’è (Einaudi, 2017), Christian Raimo dedica un capitolo a don Lorenzo Milani, polemizzando con piena ragione con quanti, da Paola Mastrocola a Ernesto Galli Della Loggia, lo descrivono come il profeta di una scuola ‘facile’, ‘buona per tutti’, ‘permissiva’ e ‘priva di impegno serio’.

La realtà storica, confermata più e più volte dalle testimonianza degli ex-allievi di Barbiana e di coloro che don Milani l’hanno conosciuto, era affatto diversa.

Nelle stanze della canonica sul Mugello si faticava otto ore, trecentosessantacinque giorni l’anno, trecentosessantasei in quelli bisestili, perché il riscatto sociale e culturale che don Lorenzo invocava per i suoi ragazzi doveva passare non da generose quanto paternalistiche elargizioni dall’esterno, ma da un processo di liberazione interiore, lungo e duro, ma proprio per questo di valore enormemente maggiore.

Nella complessa figura di don Milani, tuttavia, c’è, fra le molte, una questione che appare ancora controversa e degna di approfondimento.

Com’è possibile – per riassumerla in una domanda – che un uomo tanto deciso a difendere le sue idee e le sue azioni sociali (e politiche), sia stato anche tanto fedele alla Chiesa cattolica da apparire, a volte, persino un acritico esecutore di ordini?

Questa potrebbe, almeno, essere l’impressione.

C’è un piccolo libro pubblicato dalla stessa casa editrice che diede alle stampe Lettera a una professoressa, che forse ci può aiutare nella disamina della questione. E’ Don Lorenzo Milani: l’obbedienza nella chiesa. (Con una introduzione di Michele Gesualdi. Libreria Editrice Fiorentina, 2011)

Solo a leggere l’elenco di quelle che possiamo tranquillamente definire vere e proprie angherie subìte da don Lorenzo ci sarebbe da mettere alla prova la pazienza di un santo (e chissà che prima o poi…): 

nel 1951, quando i vescovi toscani emanano un decreto che dà un’esplicita indicazione di voto per la Democrazia Cristiana, don Milani ne esegue le direttive, (anche se subito dopo decide di partire per un viaggio di una settimana in Germania, proprio a ridosso della scadenza elettorale);

nel 1954, dopo la sua prima esperienza di curato a san Donato di Calenzano, viene spedito, con evidentissimo intento punitivo, quasi un confino, in una allora sconosciuta località del Mugello, che egli stesso non riesce nemmeno a trovare sulla carta geografica;

nel 1958 il Sant’Uffizio ordina il ritiro dal commercio di Esperienze pastorali (uno dei più straordinari saggi di analisi socioeconomica che a mio parere è stato scritto nell’Italia del Novecento);

nel 1963 il vescovo di Firenze gli ordina di non partecipare come relatore ad un convegno organizzato dal comune di Calenzano al fine di organizzare un doposcuola destinato ai ragazzi che necessitassero di aiuto scolastico.

Questo per citare solo gli episodi più eclatanti.

E pure, in una esistenza che non è stata certamente povera di pressioni, che sono arrivate anche alle minacce e alle contumelie, don Lorenzo Milani si è sempre dichiarato, in modo esplicito e persino aggressivo, fedelissimo servitore della Chiesa.

Su questo atteggiamento è possibile solo, io credo, tracciare delle ipotesi che cerchino di interpretarne origini e cause, senza la presunzione di esprimere certezze o soluzioni definitive.

A me pare che ci siano almeno due ragioni principali che spiegano la fedeltà obbediente di don Milani.

La prima deriva dal fatto che la sua vocazione sacerdotale non nasce da scontate tradizioni di famiglia. 

Anzi, tutto il contrario.

La famiglia di origine, genitori (Albano Milani e Alice Weiss) e avi precedenti, era tutt’altro che cattolica. La madre era ebrea, anche se poco interessata a praticare. Il padre era un chimico agnostico.

I figli (Lorenzo, il fratello Adriano e la sorella Elena) ricevono il battesimo (“fascista”, come scriverà don Milani anni dopo) solo nel 1933, dopo l’emanazione delle leggi razziali.

Lorenzo entra in seminario nel 1943, a vent’anni, dopo un’esperienza a Brera come allievo del pittore Hans Joachim Staude.

La sua, quindi, non sarà una vocazione né automatica né semplice. Quando entra in seminario non ha il pieno sostegno della famiglia. La sua è una scelta di grande convinzione, al di là delle convenienze e dei conformismi.

La seconda ragione è che don Lorenzo aveva imparato a conoscere benissimo ambiente, consuetudini, stanze, corridoi e anfratti della Chiesa, e di quella fiorentina in particolare, e aveva probabilmente maturato la convinzione (esattissima sia nella forma che nella sostanza) che solo un rigore pressoché assoluto nell’obbedienza alle direttive della gerarchia, quand’anche fossero vessatorie se non addirittura gratuite, avrebbe garantito al suo agire critico il massimo della credibilità e, nello stesso tempo, della insospettabilità per chiunque volesse vederne disegni di destabilizzazione dell’ordine ecclesiastico costituito.

Come scrive lo stesso don Milani ne “L’obbedienza nella chiesa”:

«Per essere buoni rivoluzionari bisogna essere migliore dell’autorità. E’ più difficile il mestiere del ribelle che quello del conformista: ci vuole più studio (l’altro trova tutto già fatto)».

Carlo RIDOLFI

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