
Quando si uniscono, in un abbraccio letale, la stolidità professionale degli insegnanti con l’ossessione competitiva dei genitori, si producono mostri come quello, balzato al disonore della cronaca, della ragazza indotta a bendarsi durante una interrogazione a Verona.
Scrive Anna Bellaviti, insegnante di inglese a Castellammare di Stabia:
“Gli occhi chiusi solo quando ascoltiamo un sonetto di Shakespeare, o un pezzo di De André. Gli insegnanti dovrebbero insegnare a tenerli sempre aperti, gli occhi”.
Pare invece, in quest’epoca, che noi si sia costretti a dover scegliere fra due modelli di scuola (e di società) entrambi rischiosissimi.
Il primo modello è quello che potremmo definire “della metropolitana di Tokyo”: se scuola e società fossero dei vagoni, insegnanti e genitori sarebbero quei signori che hanno l’incarico di spingere quanta più gente possibile dentro gli stessi. Occupatori di spazi. A volte in antagonismo: insegnanti contro genitori e genitori contro insegnanti. A volte alleati nel produrre disastri.
Il secondo modello è quello della (falsa) alternativa libertaria e anarcoide. Tipo la festa per il compleanno di Bilbo Baggins nel (peraltro indispensabile) Signore degli anelli di Tolkien. Tutti allegramente invitati o imbucati, amici veri e parenti mal sopportati, profittatori dell’occasione e leali compagni di viaggio. In un’apparenza di convivialità che nasconde altre mire e altre violenze, tanto che, a un certo punto, Bilbo, che già non ne poteva più prima della festa, decide di mettere in atto il suo piano di fuga e scompare rendendosi invisibile grazie all’anello del potere.
In mezzo a questi due modelli stanno i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze, sempre più affranti e, a volte, del tutto infranti.
Invece che occupare spazi gli educatori dovrebbero – lo disse con efficacissima sintesi papa Bergoglio nel suo discorso alla curia romana il 21 dicembre 2019 – impegnarsi a generare processi. Processi di condivisione dei saperi, di crescita comune, di confronto e di aggiornamento costante.
Si tratterebbe allora, ed è opera certo più lenta, più profonda, più faticosa e difficile, non di sfiancarsi nell’inseguimento del primo posto o di disperdersi nella pedagogia aleatoria, ma di agire per indicazioni sia sui contenuti che sui processi di partecipazione e di costruzione delle decisioni.
Una delle giaculatorie di questi anni, che, come le parole “resilienza” o “empatia” è stata talmente ripetuta e decontestualizzata da diluire il suo significato fino a renderlo impalpabile, è quella del “dobbiamo passare dall’io al noi”.
“Noi” cosa significa? Noi tutti o noi (più o meno felici) pochi? Noi di una comunità ristretta, ben protetta, che si autogarantisce per omogeneità e identità assoluta? Come nelle gated community recintate e ipersorvegliate o, come ricorda Andrea Riccardi nel suo recentissimo libro “La chiesa brucia?”, ispirata a quella “Opzione Benedetto” propugnata dallo scrittore conservatore statunitense Rod Dreher, secondo la quale bisognerebbe costruire “villaggi cristiani”, “fuori dalla città secolare, capaci di creare una controcultura, di educare i figli in famiglia, di sfidare la maggioranza”? Così noi abiteremmo il nostro bel villaggio cristiano, altri “noi” abiterebbero quello antivaccinista e senza-mascherina, altri quello della costruzione dell’élite dirigente e così via.
Forse è il caso di proporre una strada diversa, quella del “tu”, del riconoscimento dell’altro come componente ineludibile del nostro esistere, quella che ci porterebbe verso il “tu-tutti”, e da Aldo Capitini o Emmanuel Lévinas, per fare solo due esempi di giganti del pensiero (e nel caso soprattutto di Capitini, anche dell’azione), non ci mancherebbero solidissimi riferimenti concettuali e pratici.
Indicare contenuti o processi alternativi significa, ad esempio, per i primi lavorare sulla necessaria riflessione e azione pedagogica in relazione alle questioni dell’identità di genere o sul recupero e la riaffermazione di una conoscenza storica non revisionista, fino a costruire veri e propri percorsi di studio popolare e diffuso (ci tornerebbe in mente l’esperienza decisiva delle 150 ore); per i secondi aprire una discussione che porti ad una riforma degli organi collegiali della scuola in senso più compiutamente partecipativo o alla proposta di un servizio civile per tutte le ragazze e tutti i ragazzi di maggiore età, valido anche ai fini contributivi, o a una riduzione degli orari di lavoro e così via.
Per qualcuno, vogliamo essere maliziosi, il passaggio dalla benda alla fucilazione (nel voto o nella valutazione morale) potrebbe essere breve.
Proponiamo invece di tenere ben aperti gli occhi e le menti, perché solo così possiamo evitare trappole, ingannevoli scorciatoie, trabocchetti e contribuire alla costruzione comune di una strada diversa.
Carlo Ridolfi
