Il 21 marzo, com’è noto, è molte cose. Primo giorno di primavera. Giornata mondiale della poesia. In Italia, giornata nazionale della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. In molte città, scuole, piazze, teatri, non sono mancate anche quest’anno le manifestazioni per l’una e per l’altra ricorrenza. A Milano 50.000 persone hanno partecipato alla manifestazione di Libera, e mai come in questi casi si nota, per fortuna, l’altissima presenza di ragazze e ragazzi.
Tuttavia, con un poco di sussulto, è capitato anche di vedere alcune scolaresche riunite in una sala ad ascoltare un signore (un attore, credo) vestito da Geronimo Stilton, con dietro due belle pubblicità di un libro della serie dedicata al direttore dell’Eco del Roditore, dedicato, ovviamente, alla legalità.
Senza nulla togliere al personaggio di una delle collane editoriali di maggior successo degli ultimi anni, iniziative di questo genere fanno sempre tornare alla mente l’impertinente e pure ineludibile domanda su quanta coerenza ci sia tra il proclamare fini nobilissimi e utilizzare per raggiungerli le correnti leggi del marketing e, soprattutto, quale sia il reale livello di apprendimento dei ragazzini e delle ragazzine che partecipano a questi momenti di spettacolo-promozione-vendita. In poche parole: “portano a casa” più i contenuti (sicuramente nobilissimi e civilissimi) che sentono proclamare o il soddisfacimento della passione da fans, magari corredata di autografo e selfie, che rimane, come sempre in questi casi, l’epidermica soddisfazione di aver partecipato a un ‘evento’ che si consuma in se stesso?
Quando, come direbbe una cara saggia amica, si “portava bene” La gabbianella e ilgatto – libro, film, spettacolo teatrale o altra forma di merchandising -, storia di accoglienza e rispetto delle diversità, capitò di assistere ad una vera rissa tra padri che accompagnavano le figlie ad una recita scolastica nella quale si metteva in scena il libro di Sepulveda, causata da dissensi sulla posizione che le bambine dovevano occupare sul palco.
O, anche, potrei ricordare la mamma che magnificava nella riunione di classe l’avanzatissimo grado di sperimentazione didattica e di senso civico della giornata sull’educazione stradale svolta a scuola, con la presenza di una vigilasse che aveva spiegato ai bambini e alle bambine alcune regole del codice della strada, anche con esempi pratici in cortile. La stessa mamma che, al termine della riunione, caricò la figlia a bordo della sua automobile, dirigendosi imperterrita a fare un tratto di strada in senso vietato, per evitare un giro più rispettoso dello stesso codice della strada che le sarebbe costato qualche decina di metri e qualche minuto in più.
Per quanto noi ci si dica educatori attenti alla corretta trasmissione delle regole è sempre – sempre! – dal comportamento concreto e dall’esempio che i bambini e le bambine imparano di più. L’ educazione ciNica batte sempre l’educazione ciVica. Lo ha messo in luce una persona come Gherardo Colombo, che di regole e legalità se ne intende sicuramente molto molto più di me, e forse anche di Geronimo Stilton, scrivendo un libro prezioso come AntiCostituzione. Come abbiamo riscritto (in peggio) i princìpi della nostra società (Garzanti editore. Milano, 2023).
Fuor di ogni retorica, Colombo prende in esame la carta fondamentale della Repubblica e ne riscrive molti articoli, provocatoriamente ma con quella adesione alla realtà delle cose che è il punto di partenza per l’elaborazione di un pensiero critico prima di tutto onesto con se stesso, analizzando i comportamenti concreti e mettendoli a confronto con le dichiarazioni di principio.
Un solo esempio (ma il libro è davvero da leggere tutto e da tener presente come riferimento ogniqualvolta si provino sussulti analoghi, o peggiori, di quello causato dall’immagine del topo giornalista che parla di legalità). L’articolo 34, nel dettato costituzionale, recita:
La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.
L’autore lo riscrive così:
La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e solo per certi aspetti gratuita. Ai più capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, sono concessi gli strumenti per raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica non rende effettivo questo diritto selezionando i meritevoli e i capaci con concorsiper borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, e destinando le risorse complessivamente disponibili prioritariamente a settori non educativi.
E’ dunque purtroppo vero, come direbbe il poeta, avvalendosi della musica e della voce di Lucio Battisti, che “al ventuno del mese i nostri soldi erano già finiti”. E se i giardini di marzo, per ricordare com’è doveroso e necessario le vittime innocenti delle mafie, continuano ad essere innaffiati con iniziative che predicano bene e mirano più al soldo che all’efficacia concreta di ciò che si propone, forse la siccità sociale, oltre a quella ambientale che stiamo drammaticamente sperimentando, non è lontana.
Il titolare di un ministero che si è voluto chiamare dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, il primo giorno di primavera l’ha passato in Veneto, rilasciando queste dichiarazioni, rimarcando il ruolo della scuola come luogo in cui “deve partire la lotta alla mafia. Dobbiamo insegnare ai ragazzi il senso dello Stato, la cultura dei doveri e della responsabilità”. Come non essere d’accordo? Come non essere d’accordo con La gabbianella e il gatto e con il rispetto del Codice della strada? Peccato che lo stesso prof. Valditara, come ricorda il sito Wired: https://www.wired.it/article/valditara-ministro-istruzione-merito-gelmini/
Ha incominciato a occuparsi di istruzione proprio durante la sua carriera parlamentare, diventando il relatore al Senato della cosiddetta riforma Gelmini (dal cognome dell’ex ministra della Scuola Mariastella Gelmini), causa di 10 miliardi di tagli al bilancio di scuola e università, di cui 8,5 miliardi solo all’istruzione e il resto all’università, come riportano diversi studi della Commissione europea.
I soldi sottratti al settore educativo dalla riforma, divisa tra le leggi numero 133, 169 e 240, sono stati usati per “salvare” Alitalia dall’acquisizione da parte di Air France. Salvataggio inutile, dato che la compagnia di bandiera si è trovata quasi immediatamente di nuovo in perdita, per poi entrare in una crisi finanziaria nel 2017, cessare definitivamente le sue attività nel 2021 e venire acquistata da Ita airways. Nel frattempo, i tagli della riforma hanno tolto al sistema di istruzione italiano 10 mila classi, 90 mila cattedre, 30 mila supplenti e 44 mila posti per il personale non docente. Mentre sul fronte universitario portò i finanziamenti sotto la media europea, dimezzando le risorse destinate ai servizi per studenti e studentesse.
Meriti mica da poco, come si può vedere. Forse, insieme ai “piccoli libri della legalità”, bisognerebbe suggerire ai ragazzi e alle ragazze di tener conto anche del “grande libro del confronto tra le belle parole e i tristi fatti”.
Auditorium Parco della Fantasia – FORUM di OMEGNA – Parco Pasquale Maulini, 1
LODI E RODARI: TRACCE PER UN’ALTRA EDUCAZIONE
Riflessioni e approfondimenti con:
Alice BIGLI
Arcipelago fantastico tra utopia, pace e giustizia sociale: navigando con Mario Lodi, Gianni Rodari e altri autori contemporanei per l’infanzia.
Pino BOERO
C’era tante volte Gianni Rodari.
Simone FORNARA
Imparare a scrivere è un bel problema.
La didattica della scrittura dopo Lodi e Rodari.
Previsto il servizio di interpretazione LIS. A cura di
Ore 21:00
Aula Magna IC Beltrami – via E. De Amicis, 7
NON SOLO PER BAMBINI. LE CANZONI DI GIANNI RODARI
Enrico de Angelis: Voce narrante
Giannantonio Mutto: Pianoforte
Silvia Manfrini: Canto
Sabato 18 marzo
Ore 9:30 / 12:30
LABORATORI
Museo della Fantasia – via Carrobbio, 45. VIAGGIO NEL MUSEO RODARI INCOMPAGNIA DI MARIO LODI. Letizia Soriano e Nella Cafagna
Dall’esperienza personale al racconto di sé, passeggiamo e scopriamo il museo giocando a raccontare storie senza paura di sbagliare, guidati dalle parole di Gianni Rodari e Mario Lodi.
Scuola Beltrami – via E. De Amicis, 7 LA SCRITTURA COLLETTIVA E FANTASTICA. Sonia Coluccelli e Elisa Zappella
Scrivere e riscrivere, smontando e rimontando, a due o più mani e teste.
Un laboratorio di pratiche di scrittura fuori dai copioni, l’incontro possibile tra le tecniche della Fantastica rodariana e quelle della scrittura collettiva di Mario Lodi ( e don Milani).
Le parole dei maestri e le nostre, un’esperienza da portare ai bambini, perché le parole che servono a raccontare e cambiare il mondo possano essere di tutti, con la profezia necessaria ad adulti e bambini.
Biblioteca Civica “G. Rodari” – via XI Settembre, 9 LEGGERE INSIEME. Chiara Pinton e Roberto Birocco
Libri e storie per fare della letteratura strumento irrinunciabile di libertà, scoperta di sé, incontro dell’altro e del mondo
Un percorso di conoscenza, pratica e confronto per lavorare in leggerezza con i libri e creare la cassetta degli attrezzi per la promozione della lettura. Ascoltare e dare dignità a tutte le storie. Scegliere tra tanti libri e ragionare insieme per trovare il proprio sguardo sul mondo e strade comuni da percorrere insieme.
Sala riunioni Parco della Fantasia – FORUM DI OMEGNA – Parco Pasquale Maulini, 1 ELEMENTI PER UNA GRAMMATICA CINEMATOGRAFICA DELLA FANTASIA.Carlo Ridolfi e Bruno Fornara
Proviamo ad utilizzare gli elementi propri del cinema (inquadratura; montaggio; piani di ripresa; movimenti della macchina da presa; sonoro e musica) per costruire insieme alcuni elementi di una possibile grammatica della fantasia dell’immagine in movimento.
Ludoteca – via XI Settembre, 9 LA DECOSTRUZIONE DELLE REGOLE IMPOSTE. Alberto Poletti e Valentina Tacchini
Trasgredire per provare. Trasgredire per affermare. Trasgredire per distruggere. Ma soprattutto per costruire. Alla ricerca di parole ribelli per pensieri tenaci e autentici.
Un percorso per scrivere di sé e per sé.
Ore 14:00 / 17:00
In giro per Omegna a conoscere i luoghi di Rodari e ad assaggiare i laboratori del mattino.
Ore 17:30 / 18:30
Auditorium Parco della Fantasia – FORUM DI OMEGNA – Parco Pasquale Maulini, 1
Chiusura lavori
SEGUENDO LE TRACCE
Roberto Birocco
Sonia Coluccelli
Alberto Poletti
Carlo Ridolfi
Info:
c/o Parco della Fantasia – mail: info@rodariparcofantasia.it tel. 0323 887233
Quota di iscrizione:
50 euro
Il corso è valido ai fini della formazione del personale della scuola e verrà rilasciato attestato finale di partecipazione.
Per il pagamento della quota di iscrizione è utilizzabile il bonus docente.
Iscrizioni solo per serata con voce narrante, pianoforte e canto sulle canzoni da Gianni Rodari:
prenotazione obbligatoria (sia per iscritti/e al corso che per non iscritti/e) con offertalibera:
c/o Parco della Fantasia – mail: info@rodariparcofantasia.it tel. 0323 887233
Sono previsti laboratori a attività anche per bambini/e.
Sabato 18 marzo
Mattino: caccia alla casa del Barone Lamberto sull’isola di S. Giulio
Pomeriggio: laboratorio
Costo: 15 euro a persona
Prenotazione obbligatoria entro giovedì 16 marzo
c/o Parco della Fantasia – mail: info@rodariparcofantasia.it tel. 0323 887233
Valentina Certo, studiosa di storia dell’arte (e autrice del quaderno del Vocabolario dell’Arca SGUARDO) ci regala una recensione di MARIO LODI ALBERO MAESTRO.
Armonia tra arte e scienza, l’educazione secondo Mario Lodi nel libro curato da Carlo Ridolfi.
Pensieri dopo la lettura di Mario Lodi, albero maestro, Franco Angeli, 2022.
Valentina Certo
Mario Lodi nasce a Piadena il 17 febbraio 1922. Muore a Drizzona il 2 marzo 2014. Tra queste due date c’è una vita spesa per l’educazione, per i ragazzi, per l’insegnamento, per la condivisione di saperi e idee. Potremmo quindi affermare che Mario Lodi ha gettato un seme che ancora oggi, se coltivato, dona i suoi frutti più belli e duraturi? Sicuramente la nuova pubblicazione curata da Carlo Ridolfi, Mario Lodi, albero maestro, (Franco Angeli, 2022) lungi dal ridurre un uomo di così spessore a mera caricatura letteraria, cerca di dare risposte concrete a questo e altri interrogativi, sviscerare parecchi nodi, indagare pensieri, approfondire tematiche e guardare alla figura di Mario Lodi nella sua ricchezza e complessità.
Nei suoi 92 anni di vita, Lodi matura diverse esperienze: la giovinezza segnata dalla guerra, la professione di insegnante di scuola elementare, l’impegno intellettuale e sociale, la scrittura di numerosi testi, l’animazione culturale e la condivisione del suo progetto educativo e cooperativo che, ancora oggi, vive grazie all’associazione C’è speranza se accade @ – Rete di Cooperazione Educativa, creata nel 2011 sul suo impulso. E non è un caso che a curare il volume Mario Lodi, albero maestro sia stato proprio Carlo Ridolfi, coordinatore della Rete e collaboratore dello stesso Lodi dal 1994 al 2014. Venti intensi anni in cui hanno visto la luce interessanti pubblicazioni su svariate tematiche educative a dimostrare, se ci fosse bisogno, che Lodi non si prodigò da solo ma, come afferma Ridolfi “sempre con un impegno che cercava il collettivo, a proporre soluzioni, a inventare strategie didattiche, a cogliere da episodi in apparenza negativi le opportunità positive”. (Mario Lodi, albero maestro, Carlo Ridolfi (a cura di), Franco Angeli, Milano, 2022).
Mario Lodi, albero maestro, edito da Franco Angeli nel 2022 è impreziosito dalle poesie in forma di filastrocca di Carlo Marconi e dalle illustrazioni di Anna Forlati. Si rivela quindi una lettura esteticamente stimolante.
Il libro contiene una serie di saggi che ci mostrano le peculiarità del maestro socialista che cercava di valorizzare la cultura popolare e che alla domanda “cos’è l’educazione”, rispondeva che “è una armonia tra arte e scienza”. Perché Lodi è consapevole di aver ricevuto una educazione “sbagliata” e, anche per questo, spera di trovare “mezzi nuovi che contribuiscano a rendere il popolo cosciente, attraverso un’educazione” affinché ognuno conquisti il “suo ruolo di protagonista della storia”. (Una lettera come presentazione, in M. Lodi, G. Morandi (a cura di), I quaderni di Piadena, Edizioni Avanti, Milano, 1962).
Ecco che quindi, all’interno del volume si possono leggere i contributi di numerosi studiosi, diversi e complementari tra loro. Sonia Coluccelli scrive sulla concezione di scuola-mondo di Lodi notando come spesso coincidano e che una società si può definire civile quando “cerca di adattare se stessa alla crescita umana e sociale dell’uomo attraverso le sue istituzioni tra cui la scuola”- (S. Coluccelli, Il mondocome scuola, pag. 19). Carlo Ridolfi,curatore del saggio, attento e puntuale, con piglio critico, offre uno spunto per riflettere sul senso di Mario Lodi per la storia e con la storia, analizzando il maestro come un uomo e un maestro “in pieno nel corso della storia del suo tempo”. (Carlo Ridolfi, Ridare voce a un mondo muto: il senso dipag. 34). I due capitoli successivi analizzano Mario Lodi in relazione con altre importanti figure: Enrico Bottero ci parla dei rapporti tra Lodi e Freinet. Basti pensare che nel 1989 i due si incontrano all’Università di Bologna dove ricevono la laurea honoris-causa in pedagogia. Franco Lorenzoni riflette, invece, su don Lorenzo Milani, e su come queste condivisioni possano arricchire il pensiero e l’azione. Francesca Lepori scrive a proposito di “Il Mondo”. Nel 1977 Lodi pubblica il primo di 5 volumi che raccolgono ben 311 giornalini prodotti in cinque anni nella scuola di Vho di Piadena: esperienza che ha risaltato l’identità della classa, rivelato il potenziale di energie creative e dato nuovi stimoli.
Nuovi stimoli dati dalla tradizione sono quelli narrati da Mariateresa Muraca nel VI capitolo “Gesù oggi. Un percorso cooperativo di rilettura e riscrittura del Vangelo di Matteo”. Nel 1971 bambine e bambini dei quarta elementare della scuola di Vho di Padene leggono insieme al loro maestro Mario Lodi e riscrivono il Vangelo di Matteo. Una sperimentazione unica, seguita dalla pubblicazione dei pensieri degli studenti nel giornalino di classe “Insieme” e che ancora oggi potrebbe rivelarsi quanto mai entusiasmante.
Elisabetta L’Innocente pone l’accento su una preziosa testimonianza storica: il documentario di Vittorio De Seta “Partire dal bambino” dedicato a Mario Lodi facente parte della serie “Quando la scuola cambia”, trasmessa dalla RAI nel 1979. Infine le testimonianze di due maestre di oggi Roberta Passoni e Valentina Guastini.
Tra le idee più interessanti di Lodi, vorrei sottolineare quella secondo cui teoria e prassi non sono entità separate né ordinate ma elementi dialettici. A tale proposito da maestro e animatore culturale e sociale promuove un’educazione attiva che, in diverse prospettive, si era già notata con Dewey. Chi ha la fortuna di leggere ciò che i suoi studenti scrivevano all’epoca o addirittura parlare con loro, noterà che ogni studente di Lodi era assoluto protagonista. Non un mero numero o uno dei tanti alunni di una scuola di un centro come Vho di Piadena. Questo si tramuta in una visione pedagogica collegata al fare la buona politica, alla condivisione e al dialogo e ad un nuovo modo di concepire la ricerca pedagogica.
Il volume si pone parecchi obiettivi, tra tutti quelli di raccontare la scuola. Il fine non è sicuramente di celebrare Lodi (così potrebbe sembrare dal momento che ricorrono nel 2022 i cento anni dalla nascita di Lodi) ma quello di far riflettere, innescare il dubbio, far conoscere le buone pratiche, offrire uno spaccato sociale e culturale, fornire strumenti, indagare la scuola del passato per migliorare quella del futuro.
Perché non provarci? Perché appiattirsi dietro una scrivania e un sistema che mira ai programmi, ai voti, alla burocrazia e meno al ragazzo nella sua complessità? Esempi come quelli di Lodi, rivoluzionari, certo non isolati, sono “parti di un più generale progetto di trasformazione del mondo”.
“Tutte le cose sono di tutti” e “Tutte le cose a tutti interamente” sembrano due frasi rappresentative per concludere queste mie riflessioni maturate dopo la lettura del saggio e per parlare del suo progetto coopertivo e del suo progetto educativo, entrambi fondati su solide basi scientifiche e concrete fondamenta del pensiero. Entrambi così rivoluzionari e attuali.
Film per bambini e bambine e ragazze e ragazzi in uscita nel 2023.
A cura di Carlo RIDOLFI
Nota: le segnalazioni sono riferite ai gusti personali dell’autore; vale sempre – come indicazione di metodo e di comportamento – l’indicazione per educatori ed educatrici (genitori; insegnanti etc.) di conoscere prima il film che si sceglie di vedere (con approfondimenti e, se possibile, visioni preventive),e di vederlo insieme a ragazze e ragazzi e bambine e bambini.
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THE OLD OAK UK, 2023 regìa: Ken Loach con: Debbie Honeywood, Reuben Bainbridge drammaticodurata: 110′ uscita prevista: giugnoOld Oak è il nome di un pub in una località mineraria inglese dove ormai domina la disoccupazione e la disillusione. L’arrivo di un gruppo di profughi siriani porterà novità. Età indicativa di visione: 14 anni
IL FARAONE, IL SELVAGGIO E LA PRINCIPESSA (Le Pharaon, le Sauvae et la Princesse) Francia, 2022 regìa: Michel Ocelot fantastico/animazionedurata: 83′ uscita prevista: giugno Tre episodi: il primo nell’antico Egitto, il secondo nella Francia medievale, il terzo nella Turchia del diciottesimo secolo. Età indicativa di visione: dai 6 anni
Questo viaggio parte da lontano. L’estate scorsa – dal 22 al 27 agosto – la ProCivitate Christiana alla Cittadella di Assisi aveva organizzato l’80° Corso di StudiCristiani, con il titolo Altro Da Te – PasolinAssisi, dedicando la settimana di approfondimenti al centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini. Il corso ebbe una introduzione particolare, con un concerto, la sera di lunedì 21 agosto, dell’Anonima Frottolisti, eccezionale ensemble di esecutori di musica medievale, che, tra i loro lavori, comprendono anche la colonna sonora del film Chiara, di Susanna Nicchiarelli. Essendo massimamente impreparato sulla figura di santa Chiara, qualche settimana più tardi, trovandomi alla Libreria del Santo a Padova, decisi di cercare qualche testo che mi introducesse alla sua storia. Mi imbattei così nel libro di suor Chiara Amata TognaliChiara d’Assisi Come si diventa cristiani? pubblicato dalle Edizioni del Messaggero di Padova. Letto il libro, piccolo nella forma e nel numero di pagine, ma denso di passaggi interessanti, chiesi all’Ufficio Stampa del Messaggero di aiutarmi a trovare un contatto con suor Chiara Amata. Grazie alla loro efficienza e cortesia, qualche giorno dopo il contatto fu possibile ed eccomi quindi “imbarcato” (il verbo non è usato del tutto a caso) verso il Monasterodi Santa Chiara a Lovere, in provincia di Bergamo, sulle sponde del lago d’Iseo. Accolto con grande gentilezza e amicizia dalla madre suor Emanuela Roberta e dalle sorelle del Monastero, ho potuto porre qualche domanda a suor Chiara Amata.
Buongiorno, suor Chiara Amata. Vorrei iniziare la nostra chiacchierata proprio dalle parole di Chiara d’Assisi in una lettera ad Agnese di Boemia. Scrive santa Chiara: “Con corsa spedita, passo leggero, piede sicuro, in modo che i tuoi passi non sollevino polvere, avanza sicura, sul sentiero di una pensosa felicità“. Sono parole bellissime che mi portano a chiederle: quale rapporto ci può essere tra la velocità delle necessità quotidiane nella quale tutti siamo coinvolti e la necessaria lentezza della riflessione e della preghiera?
Questo è un problema che abbiamo anche noi, nel senso che anche la nostra vita è presa da ritmi piuttosto densi. Il monastero è un laboratorio in continua attività: ci sono servizi da garantire. La cucina, ad esempio. La settimana scorsa io ero di turno in cucina e una giornata del genere inizia alle 5:40 e si è poi impegnate fino a sera. Noi però abbiamo la garanzia di alcuni orari che, per quanto ci sia un minimo di elasticità, non si toccano, e nei quali la preghiera dà una strutturazione alla giornata, che è data dalla Liturgia delle Ore. La Liturgia delle Ore è la preghiera della tradizione ecclesiale, strutturata per cogliere la santità del tempo salvato da Cristo, che assegna ad ogni momento della giornata momenti in cui celebrare la salvezza di Gesù ed è tutta sostanzialmente composta dalla Parola di Dio: Salmi e altri passi della Scrittura. Si comincia la mattina con l’Ufficio delle Letture alle sei meno venti, alle sette le Lodi, sette e mezza la Messa, poi l’ora Terza, il lavoro, a mezzogiorno l’ora Sesta, alle 15:30 l’ora Nona, alle diciotto i Vespri e la sera, verso le nove, l’ora di Compieta. Questa è la struttura della nostra giornata, che garantisce dei tempi di distacco dal lavoro. Questa è una cosa molto buona, che aiuta, anche se non è così scontato che si viva così facilmente e bene, perché avere una struttura così fissa, costringe ad organizzare tutto il tuo lavoro in modo da essere pronta in tutti i sensi, sia nelle attività materiali come la cucina, sia mentalmente, quando si sta pregando. A questo si aggiunge che abbiamo un’ora di meditazione la mattina e un’ora di meditazione la sera e altri momenti che però sono più elastici a seconda di come va la giornata. Questo fatto di porsi degli stacchi, dei momenti fissi è, secondo me, una delle cose più sagge che ci offre la nostra forma di vita. Per chi vive in altri modi, ovviamente non è proponibile in questi termini, però il porre qualcosa di fisso secondo me è fondamentale. Non serve tanto: cinque minuti. Cinque minuti, all’ora che vedo buona, che va bene per me, dedicati a leggere il Vangelo, o a leggere una preghiera che mi piace, o anche solo a fare un po’ di silenzio, vale di più che pregare tre ore una volta ogni tanto. Questa interruzione credo sia fondamentale, per rendere il ritmo della nostra vita più umano e anche per renderla capace di incontrare il Signore.
Torniamo indietro di moltissimo tempo. Nel 1206 (o 1208, le fonti storiche non sono sicurissime) Giovanni di Bernardone, chiamato Francesco, figlio del mercante Pietro, rinuncia pubblicamente ai beni paterni davanti al vescovo di Assisi Guido I. La Domenica delle Palme del 1211 (o 1212) la nobile Chiara passa attraverso una porta stretta dopo aver deciso di fuggire dalla casa paterna e di lasciare tutte le sue ricchezze, per seguire le orme di Francesco. Il titolo di un suo bellissimo libro, che ricorre splendidamente alla figura retorica dell’ossimoro, è Quella prudentefollia d’amore. Esiste dunque un abbandono delle origini, forse persino un tradimento (ma generativo e fecondo) attraverso il quale ci si ritrova?
Io credo che nella nostra vita ci siano dei passaggi in cui ci viene chiesta una discontinuità. Un travaglio, un passaggio nel quale si “rinnega” qualcosa delle proprie origini. Secondo me però questo è fecondo se mantiene anche una continuità. C’è una fase in cui una persona vede di più la discontinuità, per esempio, nel nostro caso, quando si entra in monastero, ma ce ne possono essere degli altri. C’è la fase in cui viviamo più drammaticamente, faticosamente la discontinuità, però questa non ci deve far dimenticare che c’è sempre una continuità, perché quel che noi facciamo, anche un salto coraggioso, è sempre in qualche modo appoggiato su quello che si è vissuto prima. Questa discontinuità è molto feconda per quanto hanno sperimentato Chiara e Francesco e per quanto sperimentiamo anche noi se appoggiata a Gesù Cristo, alla sua proposta, al Vangelo. Anche il Vangelo è una rottura di grande discontinuità, ma nello stesso tempo sia con l’umano che con l’ebraismo, col mondo in cui ha vissuto Gesù.
A pag. 44 del suo piccolo ma profondo volume edito dal Messaggero di Padova lei scrive: “Non avere alcun potere né nella società, né nella Chiesa. Questo rende le clarisse molto vicine alla gente, che pure percepisce fortemente questo essere senza potere”. Eppure nella storia degli esseri umani, forse oggi ancor più di ieri, tutto (per il senso comune; per l’economia; per la politica; spesso anche per le relazioni interpersonali) sembra tendere verso la ricerca del potere. Com’è quindi possibile essere “percepite” come “vicine” essendo “senza potere”?
Come sia possibile non lo so: io lo constato! Constato anzi che più passa il tempo più ho l’impressione che la gente si senta solidale con noi, che noi – non per merito nostro, ma forse per come è la società – siamo percepite come il lato buono del mondo e della Chiesa, anche. Non è un merito nostro, non è che noi lo siamo, noi siamo povere persone, povere donne come tutti, però la percezione di noi è questa. Poi che effettivamente siamo senza potere è anche vero: noi siamo qui, ma nessuna di noi ha nulla, nessuna di noi conta qualcosa per se stessa, se abbiamo un significato è perché siamo insieme e cerchiamo di costruire qualcosa insieme. In quello che facciamo dipendiamo esclusivamente dalla benevolenza della gente, perché dal punto di vista economico non riusciamo a mantenerci con il nostro lavoro. Ci poniamo semplicemente per quello che siamo: cerchiamo di vivere il Vangelo, insieme, e questo è tutto. Siamo questo, non abbiamo nessun incarico, nessuna struttura oltre il posto in cui abitiamo. Neanche nessuna particolare abilità per cui brilliamo. Siamo, semplicemente. Mi sembra di percepire che in genere la gente ci vuole bene per quello. Ascoltiamo molto le persone, questo sì.
A pag. 64 leggo: “(Noi) che sappiamo di fluttuare in un universo senza centro e dalla storia difficilmente tracciabile“, diversamente da come si sentivano gli uomini e le donne del Medio Evo, che avevano fiducia in un ordine delle cose, nell’affidabilità del mondo, considerandosi come il centro del mondo. Nel corso dei secoli questo sentire è stato messo in discussione dalla scienza (Darwin), dall’analisi sociale e politica (Marx), dalla psicoanalisi (Freud), dalla fisica (Einstein e Heisenberg), fino a smantellarlo e alla definitiva acquisizione collettiva che non c’è alcun ordine e che non c’è alcun centro che comprenda gli esseri umani. Non ci resta che un vuoto di disperazione o c’è un’altra possibilità?
Devo dire che, sebbene abbia un grande fascino la visione medievale, io sono totalmente da quest’altra parte. Io non conosco mondo più ordinato, più chiaro, di quanto non sia quello di adesso. Ho sempre visto il mondo così: non si sa bene dove va, è pieno di promesse che non si sa bene cosa siano e si fluttua in questo universo e questo mondo è il mio, io mi ci trovo bene. Non ho minimamente un rimpianto di quell’altro, per quanto abbia un grandissimo fascino. Con questo: non ho una soluzione. Vedo che in questo mondo facciamo una grandissima fatica ad annunciare Cristo. Io l’ho incontrato. Chiara e Francesco l’hanno incontrato nel loro mondo, a loro modo, ma è lo stesso Cristo che ho incontrato io e che è fondamentale nella mia vita e io lo ritrovo tranquillamente anche in questo mondo che è così scentrato, confuso, che non si sa dove va. Però vedo che non sono in grado, e non sono in grado intorno a me – qualcuno forse sì, ma in genere sento che c’è molto disagio – nel rendere il Vangelo e Gesù Cristo significativi e fondanti la vita per noi oggi. Questa è una difficoltà che vedo anch’io e alla quale non so dare una soluzione. Però non mi sento minimamente smarrita in questo mondo: è l’entusiasmante mondo in cui io vivo e nel quale costruisco, cerco di pensare una prospettiva, che al momento non ho e non trovo. Ci sono naturalmente delle situazioni che rendono la cosa un po’ difficile, essendo che il Cristianesimo effettivamente si trova a disagio in questo mondo. Tra gli effetti noi vediamo la carenza di vocazioni, di cui soffriamo moltissimo anche noi. Anche la difficoltà – e qua c’è una differenza enorme rispetto al Medio Evo – di fare una promessa. In questo è sconcertante la differenza, perché per Chiara e Francesco fare una promessa che fosse incancellabile ed indelebile era una manifestazione di libertà. Era una cosa bellissima, essere fedeli era la cosa più importante. Invece il non abbandonare ciò che si è promesso – la fellonia nel Medio Evo era il peccato più grave – adesso per noi è lontano. Restiamo affascinati da questo mondo antico, ma non è il nostro, non riusciamo più ad agganciare con questi che magari percepiamo come valori affascinanti, ma non sappiamo più come fare nostri. E su questo, al momento, non ho risposta.
Chiara e Francesco: il loro rapporto con la natura, con la Creazione. Abbiamo imparato, a nostre spese, che considerare la natura altro da noi, da usare e da sfruttare, porta conseguenze catastrofiche, forse irreversibili. Ne ha parlato papa Bergoglio in quella bellissima lettera al mondo che è la Laudato sì. Cosa ci possono dire, al proposito, Francesco e Chiara?
Per quanto riguarda Chiara potrei citare solo un punto in cui emerge questa dimensione della natura, quando lei raccomanda alle sorelle in servizio fuori dal monastero di “laudare il Signore alla vista degli uomini e degli alberi fronzuti”. Francesco, invece, ha molti spunti. E’ evidente che il problema ecologico non esisteva. Possiamo dire che per Francesco tutto manifestava il Creatore e in ogni cosa lui vedeva quello: le creature erano per lui fratelli e sorelle, in quanto espressione di una Creazione comune a tutti noi. Naturalmente questo discorso è validissimo anche adesso, ma non ha più questa pregnanza perché non tutti pensano a Dio come Creatore o non pensano affatto a Dio. Per cui anche fondare il discorso che noi siamo fratelli e sorelle della Creazione è difficile, può risultare romantico, ma come un discorso difficilmente fondato. E questo è un problema.
Grazie, di cuore, suor Chiara Amata. “Siamo”. “Ascoltiamo”. “L’entusiasmante mondo in cui vivo”. Fosse solo per questo – ma c’è stato anche molto altro – valeva la pena di “imbarcarsi” per Lovere.
E grazie, davvero, a tutte le sorelle del monastero di Lovere, anche per aver avuto la curiosità e la pazienza di invitarmi ad un dialogo con loro dopo la (buonissima) cena consumata in parlatorio, nella quale ho provato a raccontare di me, di Mario Lodi, della Rete di Cooperazione Educativa.
Gli interventi di Carlo Ridolfi e Francesca Tuscano nella sessione “La pedagogia delle cose” all’80° Corso di Studi Cristiani della PRO CIVITATE CHRISTIANA: ALTRO DA TE – Cittadella di Assisi – 24 agosto 2022
Stefano Fassina, economista, già deputato e viceministro, ha scritto un libro importante. Ha anche accettato, con grande disponibilità e cortesia, di puntualizzare alcuni concetti dopo le considerazioni proposte nella recensione ha accettato. Il dialogo e il confronto sono sempre gli strumenti migliori per poter crescere insieme.
Un tempo si sarebbe detto che questo è un libro che apre un dibattito. Al tempo nostro, oscuro e confuso q.b., il dibattito sembra costretto in una logica binaria (0/1; amico/nemico; oppure rosso/nero, come nella recente campagna elettorale del PD) che mortifica analisi, ragionamenti, approfondimenti e indagini nella complessità.
Che sono, per fortuna, presenti in tutte le pagine del volume scritto da Stefano Fassina (Economista e deputato della Repubblica, già responsabile Economia e Lavoro nel PD guidato da Pierluigi Bersani e poi viceministro dell’Economia e delle finanze nel governo Letta). A partire dal titolo, dove risaltano, a mio parere, la parola mestiere (essere di e fare la sinistra sono un mestiere e non una professione, né nell’antica accezione che individuava figure di rivoluzionari a tempo pieno, né in quella più recente e purtroppo assai diffusa di lavoro redditizio per i singoli, ma con quel carattere di artigianato e di arte ben richiamato da Mario Tronti nel commento che chiude il volume). E, anche, la parola ritorno, perché la politica della sinistra – diciamo dal 1989, per individuare una possibile periodizzazione – ha dismesso i suoi caratteri di azione per trasformare il mondo, limitandosi alla fredda gestione amministrativa di un esistente sempre più lontano dai suoi motivi di esistenza originari. (Con tutto il rispetto per le persone – e forse un po’ meno per le scelte concrete compiute – difficile, davvero tanto, scaldare gli animi e i cuori con il loden di Mario Monti o l’aplomb da banchiere di Mario Draghi).
Stefano Fassina ci propone otto “memo”, otto promemoria, appunti e spunti di riflessione, per tornare a identificare i connotati distintivi della Sinistra (scritto con la “s” maiuscola), purtroppo “dimenticati o ignorati”, e per riconoscere “un disegno, una visione, un neo-umanesimo laburista ed ecologista”.
I primi tre sono dedicati al lavoro che, su questo Fassina ha ragione in pieno, avrebbe dovuto essere la bussola sicura che indicava la direzione da seguire e che, invece e con effetti devastanti che sono sotto gli occhi di chiunque voglia vederli, è stata colpevolmente gettata via in un’enfasi di ‘modernità’ che ha fatto buttare acqua sporca, bambino, panni e mastello tutti insieme e senza distinguere ciò che non era più adeguato e utile con ciò che rappresentava radicamento e identità.
Risultato, assai poco lusinghiero e consolante, “siamo l’unico Stato dell’Unione Europea dove si è registrata, in trent’anni, una riduzione delle retribuzioni in termini reali” (pag. 23) e “il ministero del Lavoro indica che intorno al 25% delle lavoratrici e dei lavoratori del settore privato hanno un reddito al di sotto della soglia di povertà” (id.). Se a questi indicatori si aggiunge il fatto, purtroppo evidentissimo, di un “sostanziale blocco della mobilità sociale (…): i figli ereditano la condizione sociale dei padri” (pag. 24) risulta l’immagine di un’Italia che rischia di mettere alle sue porte d’entrata lo stesso cartello che sta a Civita di Bagnoregio, splendido ma precario borgo in provincia di Viterbo, che fu anche set per alcune sequenze de La strada di Fellini, sempre più minacciato dall’erosione, al punto da accogliere i visitatori con la scritta: “Benvenuti nella città che muore”.
Analisi impeccabile, quella di Stefano Fassina, che arriva tuttavia ad una conclusione che mi permetto di porre in discussione. Quando scrive: “il puntopolitico cardinale per la Sinistra è migliorare le condizioni materiali di vita delle persone in difficoltà e rispondere al loro smarrimento identitario” (pag. 28) a me sembra – lo pongo come punto critico da approfondire e sul quale confrontarci – che ci sia ancora un legame troppo stretto con una visione troppo economicistica e strutturale, a causa della quale la sinistra storica ha spesso perso di vista le reali condizioni storiche. Cerco di spiegarmi: le “condizioni materiali di vita”, cioè la struttura, non sono mai (su questo persino Marx non era riuscito ad andare più in là di qualche generica intuizione) slegate dalla questione dell’identità (cioè la sovrastruttura). Struttura e sovrastruttura non sono separate, ma distinte. E io posso considerare che la mia gamba è altra cosa dal mio braccio o dalla mia testa, ma se la separo non sono più in equilibrio. L’identità è ambiente complesso e multidimensionale: comprende le origini di genere, di etnia, di provenienza geografica e di nazione, di ambiente sociale, di lingua, di livello culturale, di religione, di orientamento sessuale etc.
In questo senso (ma è, sia chiaro, non un rilievo alla competenza di Stefano Fassina, ma un richiamo a tutti noi per uno sguardo più ampio) credo sia necessario il riferimento a diversi ambiti disciplinari, per l’analisi della realtà, senza gerarchizzarli e senza trascurarne alcuni a beneficio di altri. L’economia, certo, ma anche la sociologia, l’antropologia culturale, la storia, la linguistica, la psicologia etc. (Marx, di sicuro, ma anche Weber, Lévi-Strauss, Teilhard de Chardin, Chomsky, Bloch e Braudel, Karen Horney, per fare solo alcuni dei moltissimi esempi possibili).
Dopo il primo “memo” (“La sinistra senza la bussola del lavoro”), il secondo (“Il lavoro prima di tutto”) riprende – verrebbe da dire: finalmente! – due princìpi che avrebbero dovuto essere fondamentali per la sinistra storica e che invece sono stati abbandonati o per ignavia o per colpevole compromissione con l’avversario storico. Scrive Fassina: “La Sinistra deve ambire alla piena e buona occupazione, al Lavoro di Cittadinanza, innanzitutto attraverso la redistribuzione dei tempi di lavoro”.
Cosa è accaduto, invece, in questi ultimi trent’anni? E’ accaduto che, avendo smarrito la nozione di impegno collettivo (e avendo demonizzato, come spesso ricorda lo stesso Stefano Fassina, anche quella di conflitto), si è lasciata la dinamica sociale in balìa del princìpio contrario. Tutto è divenuto azione e interesse individuale, slegati dal legame sociale. Così si è invocata per decenni la flessibilità (come già detto: in tutto meno che nelle retribuzioni, che sono rimaste rigide e quasi immobili) e si è detto agli uomini e alle donne che, in caso di difficoltà, la parola magica era resilienza, cioè la capacità individuale di assorbire colpi senza essere spezzati definitivamente e, di fatto, di adattarsi senza rivendicazioni alle condizioni di sfruttamento, in attesa (anche questo viene opportunamente ribadito nelle pagine del libro) dello sgocciolamento di qualche residuo di ricchezza verso le parti più deboli della società.
Com’è stato possibile, mi chiedo, che due battaglie come il Reddito di cittadinanza e le pensioni siano state lasciate in mano l’uno ai CinqueStelle e l’altra addirittura alla Lega? Imprigionati nella logica delle compatibilità, dai vincoli europei alla cosiddetta “Agenda Draghi”, i partiti che si autodenominavano di sinistra hanno dato la stura e, a volte, sono stati persino promotori diretti a provvedimenti che, dalle leggi Treu allo sciaguratissimo Jobs Act, hanno favorito e incrementato situazioni di precariato, di sottosalario, di incertezza.
Lavorare ponendosi come orientamento la piena occupazione, anche attraverso la riduzione degli orari di lavoro, e una conclusione della vita lavorativa che tenga conto delle condizioni reali dei diversi tipi di lavoro (ho visto uomini giovani e grandi e grossi svenire per il caldo di una fonderia; come possiamo pensare di chiedere loro di lavorare in quelle condizioni fino a 67 anni, per giunta attendendo che continuino a votare partiti che hanno scelto di lasciarli lì?) dovrebbero essere due pilastri fondamentali per la costruzione di una moderna sinistra laburista.
Il terzo “memo” (“Il libero mercato svaluta il lavoro e acuisce le diseguaglianze”) conclude la prima parte dedicata alla questione laburista, allargandone la visione a dimensioni antropologiche e istituzionali, sulle quali mi permetto un altro paio di considerazioni critiche.
Stefano Fassina propone qui una discussione, secondo me del tutto opportuna e non viziata da pregiudizi, su questioni cruciali come quelle prese in esame dal cosiddetto “disegno di legge Zan” o, altro esempio non aggirare, sul confronto in merito alla “maternità surrogata” da lui avuto nel 2016 con Bia Sarasini. Dice anche, e su questo concordo in pieno, che su questi temi non sia possibile né giusto rinunciare al confronto con le posizioni e le sensibilità del mondo cattolico. Ma a me pare – senza certezze definitive, ché stiamo parlando di un terreno delicatissimo e che tocca ambiti profondissimi degli esseri umani – che ci sia una insufficienza di base (non imputabile all’autore, ma a una più generale abitudine generalizzante). Intendo dire che, secondo me, su questi temi non siano possibili prese di posizione che non abbiano – prima, sia in senso logico che cronologico – interpellato a fondo chi (donne, gay, trans etc.) vive sul proprio corpo (inteso come integralità dell’esperienza) situazioni e scelte che non poche volte passano attraverso percorsi di sofferenza e di dramma. Non sono cioè possibili assolutizzazioni giuridiche in astratto, senza che si sia ascoltata – non con sufficienza (che non ha Stefano Fassina) e paternalismo, ma con attenzione vera – la voce dei soggetti vivi, reali e concreti.
La seconda questione che mi pare critica nell’esposizione proposta da Fassina – che si trova in questo capitolo e che informa di sé molti di quelli successivi – è quella dello Stato.
E’ assolutamente vero, cioè, che se la Sinistra non ritorna a pensare allo Stato (anche quello nazionale, e in questo senso sono davvero illuminanti e per qualche verso sorprendenti, ma con una sorpresa che apre al nuovo, le considerazioni certamente non scontate o date per acquisite che Stefano Fassina fa in riferimento all’Europa e alle necessarie dinamiche con la storia degli Stati membri) come alla condizione irrinunciabile di garanzia e di protezione di chi lo abita, sbaglierebbe clamorosamente direzione.
In questo senso il secondo drammatico errore, dopo quelli sul lavoro già citati, compiuto in questi tre decenni è stato la modifica al titolo V della Costituzione, che ha aperto la strada, in modo non si sa se irresponsabile o connivente, alla rivendicazioni delle Regioni del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna), che potrebbe portare ad una Autonomia Differenziata che, come Fassina argomenta in modo ineccepibile, ci orienterebbe verso una rottura dell’unità nazionale che avrebbe effetti davvero drammatici. (Non solo per le regioni del Sud, storicamente più “deboli”, ma anche per quelle che si ritengono più “forti” e che su ambiti quali la sanità e la scuola potrebbero far disastri in termini di privatizzazione e definizione dei criteri di assunzione degli insegnanti e dei programmi di studio).
Resta tuttavia il dubbio (Fassina conosce senza dubbio il grande e purtroppo spesso inascoltato lavoro fatto a partire dal 1972 dal Centro per la Riforma dello Stato) che ci sia ancora una insufficiente considerazione delle condizioni in cui si trova lo Stato italiano, nei suoi apparati amministrativi, nelle sue insufficienze organizzative e burocratiche, se non persino nelle sue contiguità con ambienti criminali. La pongo come questione da approfondire, su una pista di lavoro che dovrebbe aiutarci a elaborare concrete proposte di riforma.
Il breve, ma densissimo, “memo #8” riassume nel titolo e nella trattazione quello che Stefano Fassina sembra proporre come programma per un ritorno alla Politica.
“Neo-umanesimo laburista e ambientalista”, senza che diventi per forza il nome di un nuovo partito, mi pare essere indicazione per piste di discussione e di lavoro davvero interessanti e appassionanti.
Discussione e lavoro che dovrebbero coinvolgere, non con consultazioni occasionali ed effimere, ma con punti di elaborazione di cultura sociale veri, continui, considerati e ascoltati, donne e uomini che siano di esperienza politica o neofiti, del sindacato, del Terzo Settore, di diversa appartenenza religiosa e così via.
“Servirebbe” – scrive Fassina – “un finale alternativo nei film di Ken Loach” (pag. 116).
Sono pienamente d’accordo. Anzi, indicherei già una possibilità. Vero è che in molte pagine di questo libro importante e da leggere e far leggere vengono in mente, per la profondità e la precisione di molte analisi, molti film del grande regista britannico (per fare un solo esempio, quando Fassina parla delle condizioni di lavoro dei drivers non possono non riecheggiare le immagini e i dialoghi di un film drammatico e pure illuminante come Sorry,We Missed You, 2019). Ma Ken Loach ha realizzato anche un film documentario, forse un po’ meno conosciuto, The Spirit of ’45 (2013), nel quale ricostruisce come, dopo la devastazione della Seconda guerra mondiale, i governi laburisti seppero dar orientamento alla ricostruzione non solo economica, ma anche sociale e civile, mobilitando le migliori energie della solidarietà, della cooperazione, del legame sociale.
Senza nostalgie passivizzanti o sguardi all’indietro su improbabili bei-tempi-che-furono – perché, come dice Francesco De Gregori: “La storia non ha nascondigli, la storia non passa la mano” – dovremmo, tutte e tutti, e in questo senso il libro di Stefano Fassina ci potrebbe davvero dare una grande mano, ritrovare uno spirito che abbiamo smarrito per pigrizia, ignavia, compromissione o vigliaccheria.
Non dopodomani né domani, perché il futuro non è garantito per grazia divina, soprattutto in un’epoca nella quale la minaccia nucleare, che speravamo espunta dalla logica umana dopo Hiroshima e Nagasaki, torna a farsi ipotesi contemplabile dai potenti della Terra.
Oggi. Qui e ora. Insieme.
Carlo Ridolfi
Note in risposta.
di Stefano FASSINA
Ringrazio Carlo Ridolfi per l’attenzione dedicata al mio testo. Lo ringrazio in particolare per i rilievi critici, i più interessanti, perché come lui rileva il libro del sottoscritto ha come obiettivo aprire un dibattito sul mestiere della Sinistra, non proporre un ricettario. Il suo primo rilievo investe la vexata questio della relazione tra struttura e sovrastruttura. In particolare, in uno dei miei “memo”, la critica investe il seguente passaggio: “il punto politico cardinale per la Sinistra è migliorare le condizioni materiali di vita delle persone in difficoltà e rispondere al loro smarrimento identitario” (pag. 28). Ridolfi rileva che: “le condizioni materiali di vita, cioè la struttura, non sono mai (su questo persino Marx non era riuscito ad andare più in là di qualche generica intuizione) slegate dalla questione dell’identità (cioè la sovrastruttura). Struttura e sovrastruttura non sono separate”. Sono d’accordo, completamente. La “e” in mezzo tra “migliorare le condizioni materiali di vita delle persone in difficoltà” e “rispondere al loro smarrimento identitario” è intesa come endiadi, non come congiunzione. Quindi, sottintende un legame tra condizioni distinte, ma non separate. Sarei dovuto essere più chiaro, anche perché considero il punto di primaria rilevanza. Nessuna separazione tra struttura e sovrastruttura, ma un’interazione complessa in un contesto multidimensionale, come sottolinea Ridolfi. Il dato politico che intendevo richiamare è il disinteresse maturato dalla Sinistra non soltanto per le condizioni materiali di vita delle persone ma anche, anzi soprattutto, per il loro smarrimento identitario aggravato dalle loro condizioni materiali di vita. Per smarrimento identitario intendo: la perdita delle coordinate per trovare riconoscimento nella propria comunità; l’incomprensione delle valutazioni sociali criminalizzanti il proprio arroccamento “difensivo”; la caduta di fiducia nel “proprio” mondo alla luce degli standard imposti per il “successo”; la sensazione di vuoto di senso al raggiungimento di obiettivi consumistici imprescindibili; il raffreddamento emozionale causato dal sistematico occultamento commerciale del sacro. In sintesi, la “disperazione escatologica”, nelle parole di Matteo Zuppi (Avvenire, 14/08/22). Un circolo vizioso nella persona degradata a “consumatore”.
Anche il secondo rilievo di Ridolfi centra un nodo decisivo per consentire alla Sinistra di fare il suo mestiere: le “capacità” dello Stato, definito qui come amministrazioni pubbliche. Siamo messi male, senza alcun dubbio. C’è voluta prima la pandemia e poi il PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, per costringere il “senso comune” (da destra e sedicente sinistra) “contro la burocrazia” ed i fautori delle politiche liberiste “starve the beast” (far morire di fame la bestia, ossia lo Stato), a riconoscere che le pubbliche amministrazioni italiane, negli ultimi 30 anni di tagli alla “spesa improduttiva”, sono state spogliate di competenze professionali, sia in termini qualitativi che quantitativi. Abbiamo, tra gli Stati dell’Eurozona, ma anche in confronto al Regno Unito, di gran lunga il più basso numero di dipendenti pubblici in rapporto agli abitanti e l’età media più alta. Anzi, le pubbliche amministrazioni, attraverso le “esternalizzazioni” di servizi essenziali sono diventate la principale macchina di precarizzazione e impoverimento del lavoro. È necessario un programma pluriennale di riqualificazione e ricostruzione delle capacità amministrative a tutti i livelli, in aggiunta ad insegnanti, personale medico, operatori della Giustizia, a cominciare dalle amministrazioni comunali: soltanto attraverso pubbliche amministrazioni di eccellenza si possono attuare politiche pubbliche efficaci. Il programma dovrebbe iscriversi in un quadro istituzionale ridefinito e corretto, innanzitutto sul versante costituzionale, per eliminare lo scempio compiuto nel 2001 all’inseguimento elettorale della Lega Nord con le norme di “regionalizzazione” dello Stato e l’apertura di destabilizzanti spazi all’autonomia differenziata.
Mi fermo qui. Grazie ancora a Carlo Ridolfi per le interessanti sollecitazioni.
Cento anni fa (17 febbraio 1922) nasceva Mario Lodi. Cento anni dopo, un Mario che sta crescendo – frequenta la III B di Venticano, IC di Montemiletto, con l’insegnante di lettere Enrica LEONE – ci manda queste sue riflessioni sulla scuola di oggi.
Don Milani ha ancora tanto da dire e orecchie cui parlare. Sono quelle dei giovani e delle giovani che abitano la scuola e che da questa spesso non si sentono capiti, accolti, desiderati. Sono giovani come Mario, 14 anni a maggio, e tanta voglia di dire al mondo che non è così che si fanno le cose. È bastato leggere poche righe di Lettera a una professoressa per scrivere un piccolo grande capolavoro di consapevolezza e rabbia. A dimostrazione del fatto che i ragazzi e le ragazze sono capaci di pensieri grandi, di parole belle, di gesti poetici, purché si sappia dar loro lo spazio per esserci e il tempo per ascoltarli. Davvero.
LA SCUOLA DI MARIO
La scuola è l’istituzione pubblica che garantisce istruzione, educazione e soprattutto una formazione completa alle giovani menti.
La scuola è il luogo dove s’incontrano i primi amici, dove si impara a vivere senza i propri genitori e dove si impara come bisogna comportarsi in ogni situazione e contesto.
E’ il primo luogo in cui iniziamo davvero a confrontarci con noi stessi, scaviamo dentro di noi e iniziamo a capire quali sono le nostre passioni, cosa davvero ci piace e cosa no.
E’ proprio a scuola che cresciamo, non solo fisicamente, ma anche mentalmente ed emotivamente, perché impariamo che dagli errori ci si rialza più forti di prima, che per una vittoria non bisogna montarsi la testa e che bisogna essere costanti, senza mai mollare neanche un secondo.
Tutto questo dovrebbe essere la scuola, ma spesso non è così.
Purtroppo è ancora profondamente radicato un sistema di favoritismi palese, che garantisce meriti a chi non è degno e che tende a sminuire l’impegno di altri ragazzi che meriterebbero davvero di essere ricompensati.
In questo sistema vanno avanti solo i ricchi, i raccomandati, i soliti “figli di papà” che anche se incompetenti, si ritroveranno senza alcun merito a guidare partiti politici o a sedere in Parlamento.
Dietro invece, vengono lasciati i poveri, gli emarginati, quelli con meno possibilità, che un giorno per vivere saranno costretti ad andare a spaccarsi la schiena.
Per loro saranno riservate scuole di seconda categoria che non saranno mai in grado di offrirgli la possibilità di una vita migliore.
Oggi molti dicono che ormai questo è passato, che tutte queste differenze non esistono più e che nessuno viene abbandonato al proprio destino, ma io penso che questa sia una convinzione del tutto sbagliata.
Ad esempio credo sia più che netta la differenza tra il sistema scolastico del Nord e quello del Sud, tra quello delle grandi città e quello delle periferie delle città.
La scuola a mio parere non è ancora assolutamente in grado di garantire le medesime possibilità a tutti.
Il problema reale è che la scuola è solo il riflesso di quello che è la società italiana ancora basata su una forte divisione in classi sociali.
Purtroppo anche il governo sembra del tutto indifferente a questa situazione e invece di promuovere lo sviluppo della scuola, investendo per la costruzione di strutture più adeguate e offrendo mezzi moderni che migliorerebbero di molto i metodi di apprendimento, taglia la spesa per la scuola, togliendo ulteriori possibilità agli alunni meno agiati.
Per fortuna nella mia esperienza personale quasi mai si sono verificate situazioni del genere.
Soprattutto alle medie nessuno è mai stato lasciato indietro e ogni volta che qualcuno mostrava o mostra un minimo segno di cedimento, veniva e viene incitato a fare ancora meglio di prima e questo perché ognuno di noi è messo sullo stesso piano, senza alcuna distinzione e tutti siamo chiamati a dare il massimo in ogni circostanza. Per una reale trasformazione del sistema scolastico sarebbe necessario un radicale cambiamento della nostra società, che non deve essere fondata sul sistema dei favoritismi e che ricompensi i propri cittadini in base ai propri meriti e non in base allo status sociale.
Solo in questo modo anche la scuola potrà essere in grado di garantire a ogni alunno, di ogni scuola e di ogni parte d’Italia, la stessa istruzione e le stesse possibilità.
Un altro grave problema è che quando un alunno non riesce ad apprendere, viene dichiarato sbrigativamente unico responsabile di ciò. E’ proprio in questa situazione che alcuni ragazzi manifestano difficoltà di apprendimento e una forte demotivazione.
La scuola, come ho già detto, è un servizio educativo per tutti e tutte e proprio per questo deve riconoscere che ognuno è speciale; le persone sono diverse l’una dall’altra e come tali vanno accettate.
Fra gli studenti problematici molti saranno quelli che verranno emarginati dalla società.
E’ necessario e urgente l’intervento dello Stato in favore degli insegnanti che hanno bisogno di motivazione, di sicurezza, di rispetto e stima per potere dare il meglio di se stessi.
Gli insegnanti, a loro volta, dovranno agire con vero interesse per lo studente, con entusiasmo.
La loro opera di formazione deve avere un’anima.
Una scuola senza anima sarà solo un edificio con dentro delle persone che si guadagnano da vivere e non produrrà pensiero, apprendimento, cultura e sviluppo degli studenti, delle studentesse e della società.
Io sono fermamente convinto che il futuro dell’umanità dipende anche dal rinnovamento dell’educazione scolastica.
Solo così i giovani potranno crescere come persone e cittadini consapevoli.